Una nuca, i piedi di una donna che camminano tra la polvere e i detriti di un cantiere sconquassato dalle ruspe, le dita di due mani che picchiettano sul volante di un auto. La recensione de L'appuntamento parte da qui, dal montaggio alternato delle immagini d'apertura di un film che prova a ricomporre i frammenti lasciati sospesi per aria da una guerra civile come quella che dal 1991 sconvolse per un decennio i popoli dell'ex-Jugoslavia. Dopo il personalissimo viaggio di Dio è donna e si chiama Petrunya, la regista macedone Teona Strugar Mitevska torna a occuparsi di identità, etnia e religione di nuovo accompagnata dalla sceneggiatrice bosniaca Elma Tataragić, la sua "anima gemella". Insieme scrivono una storia ispirata alla vita di Elma ricucendo strappi, indagando lo spazio che separa la vittima dal carnefice, ribaltando i ruoli e mettendo in scena una rete di connessioni impossibili, quasi assurde. Un film a tratti caustico, selvaggio quasi una danza ancestrale che rivisita il trauma del conflitto.
Una storia di redenzione
Il titolo originale de L'appuntamento (presentato a Venezia 79°) è The Happiest Man in the World (L'uomo più felice del mondo) citando una delle battute del film, ma di felice in questa collettiva elaborazione del lutto c'è ben poco: c'è piuttosto la riesumazione delle ferite belliche e il tentativo di liberarsene. Siamo a Sarajevo nei giorni nostri, le cicatrici sono ancora visibili nei palazzi segnati da fori di proiettile, nei cantieri della ricostruzione o sui corpi e nei ricordi dei sopravvissuti, come Asja, una donna single di quaranta anni, biondi capelli e passo affrettato, che decide di iscriversi ad un grottesco e affollatissimo evento di speed dating in un decadente albergo della capitale. Qui conosce Zoran, un uomo misterioso, pallido, teso, scavato in volto e dal fare spasmodico.
I due sembrano avere molto in comune, pare si piacciano mentre si ritrovano in postazione come il resto delle coppie presenti pronte a schiacciare un pulsante al centro del tavolo per rispondere ad una lunghissima sequela di domande poste da una voce all'altoparlante: "Qual è il vostro colore preferito?", "Tollerereste un vicino di casa di fede religiosa diversa?", "Frequentereste una persona di fede religiosa diversa?". Già, perché essere serbo, musulmano, bosniaco probabilmente fa ancora la differenza in quel paese, persino in un vecchio hotel dall'aria dimessa che si affaccia sul cimitero di Sarajevo. "Non sei serbo?" gli chiede lei dopo un incerto approccio iniziale. Zoran risponde senza filtri e nel corso di un confronto sempre più convulso, dirà anche di più: "Ero arruolato nell'esercito serbo bosniaco e ho sparato contro la mia città". Per essere più precisi il 1° gennaio 1993 sparò contro la cameretta dove Asja, allora appena sedicenne, dormiva insieme ai suoi genitori. Una mira perfetta tanto da ridurla in fin di vita, ma ora Zoran se ne sta lì davanti a lei a implorare il suo perdono.
Vittima e carnefice: il ribaltamento dei ruoli
Come succedeva già nel film precedente, Teona Strugar Mitevska affida ad un ritratto femminile il compito di riflettere sulla società, i pregiudizi, la violenza, la religione, su cosa definisca o meno la nostra identità e sulle infinite possibilità di redenzione. L'unità di tempo e luogo dell'azione chiusa tra le quattro mura di un albergo, a eccezione di qualche flashback confuso, le permette di strutturare il film come una pièce teatrale condita di sottotesti allegorici e digressioni oniriche. Fino al ribaltamento feroce dei ruoli di vittima e carnefice, con Asja che trasforma la sala d'hotel fino a poco prima palcoscenico di quel bizzarro incontro di aspiranti anime gemelle, in una vera e propria aula di tribunale. Lo fa sedere, lo incappuccia, gli lega mani e piedi e lo costringe a dire la verità incalzandolo con una raffica di domande e sottoponendolo al giudizio di una giuria popolare, in mezzo alla smarrimento di chi invece vuole solo dimenticare: le cicatrici ne L'appuntamento si lavano via così, tramite rituali dal potere catartico spesso solo immaginati.
È un film corale, fisico in cui i corpi degli attori giocano un ruolo determinante: sempre in primo piano, vibranti, aggrovigliati o contrapposti l'uno all'altro, sfiancati dal trauma o testimoni dell'eredità di una guerra che non se ne è mai andata. Jelena Kordić Kuret e Adnan Omerović sono i volti di Asja e Zoran, due identità ridefinite da un tempo che cessate le ostilità sembra essersi cristallizzato su quel cimitero visibile in lontananza dalle finestre dell'hotel, sopra la cortina di nuvole e luci della sera che si stiracchiano su Sarajevo. E chissà se un perdono può esistere, forse sì almeno a vedere il gioco infantile a cui si abbandonano nel finale i due protagonisti, o la danza frenetica a ritmo di elettronica alla quale Asja consegna i suoi fantasmi in mezzo a un gruppo di ragazzi che quella guerra per fortuna non l'hanno mai conosciuta.
Conclusioni
Selvaggio, caustico, quasi ancestrale come abbiamo ribadito più volte nella recensione de L’appuntamento, il film della regista macedone Teona Strugar Mitevska è una originale rivisitazione del trauma post bellico nel caos di ferite, etnie e fedi religiose che la guerra della ex-Jugoslavia si è lasciata dietro. Lo fa attraverso due protagonisti disillusi: vittima e carnefice faccia a faccia, l’uno di fronte all’altro alla resa dei conti con tanto di ribaltamento dei ruoli. Un effimero speed date per cuori solitari si trasforma così in un rabbioso processo dei colpevoli. Salvo poi lasciare spazio alla redenzione.
Perché ci piace
- La rivisitazione del trauma della guerra attraverso un evento bizzarro come quello di uno speed date.
- La messa in scena minimale.
- Le prove fisiche degli attori che segnano l’azione attraverso i propri corpi e spesso attraverso lo spazio dell’improvvisazione.
Cosa non va
- Non è un film facile, non tutti potrebbero comprenderne la sua forza allegorica e le digressioni oniriche.