"Questa è la vera natura della casa: il luogo della pace; il rifugio non soltanto dal torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia". Eppure negli anni il concetto di casa, dentro e fuori dalle cornici cinematografiche, si è sempre più allontanata dal concetto ameno proposto da John Ruskin. Da nido protettore, e abbraccio confortante e confortevole, quelle pareti così conosciute, si sono tramutate sempre più in prigione, ambiente soffocante, fucina di incubi e paure. Basti solo pensare al rapporto simbiotico e allo stesso tempo mefistofelico stretto tra Anthony (Anthony Hopkins) e ogni singolo oggetto, orpello, decoro che abita insieme a lui la propria dimora in The Father.
Come sottolineeremo in questa recensione de L'angelo dei muri, anche Lorenzo Bianchini (che del film è sia regista, sceneggiatore che montatore) redige un'opera con un inchiostro appena leggibile perché tutto deve rimandare a un linguaggio visuale suggerito, pieno di allusioni e poche certezze. Ad abitare quelle mura sono adesso sospiri in formato cinematografico che permettono alla pellicola di insidiarsi nelle profondità più epidermiche di un pubblico ora tempestato da dubbi, e per questo ancora più coinvolto dalle trame qui intessute, perché interessato a trovare delle risposte a quesiti costantemente in sospeso, costantemente irrisolti.
ABITARE NELLE STANZE DEL PASSATO IN UNA CASA DEL PRESENTE
Pietro (Pierre Richard) è un vecchio solo e ammalato che vive in un appartamento di un palazzo in ristrutturazione a Trieste. Dopo aver ricevuto l'ingiunzione allo sfratto, pur di non lasciare la propria dimora, crea un piccolo rifugio innalzando un muro in fondo al lungo corridoio di casa. Dal suo nascondiglio, Pietro si mette in osservazione fino all'arrivo dei nuovi inquilini: una giovane donna e sua figlia. La bambina si accorge della presenza di Pietro, ma non lo può vedere perché cieca. L'anziano inizia a vegliarla instaurando un legame affettivo.
Bianchini chiede, domanda, interroga il proprio spettatore, senza fornirgli soluzioni certe. Il suo è uno schema labirintico atto a lasciar perdere un pubblico adesso smarritosi tra i meandri di pareti tanto architettoniche quanto mentali, segnate entrambe dallo scorrere degradante del tempo. Sprovvisto di una bussola narrativa, al proprio spettare il regista non intende fornire nemmeno delle indicazioni verbali. I dialoghi sono limitati a poche frasi, perlopiù affidate a una bambina che in cambio della parola fa a meno della vista. Una mancanza che si gemella, compensandola, con quella del protagonista, ora chiuso in un voluto mutismo limitato a pochi sospiri. E così, se il Pietro di Pierre Richard (re della commedia francese degli anni Ottanta) è lo spirito guida all'interno di questa peregrinazione domestica, strutturata su un continuo nascondersi e mostrarsi, scrutare senza lasciarsi vedere, la piccola co-protagonista dona voce a un universo in silenzio, sospeso, in equilibrio precario e perturbante tra passato e presente. Senza arrivare al parossismo di un Alain Resnais, anche quello de L'angelo dei muri è un crocevia di fantasmi del passato e spiriti del presente; un nascondino messo in atto tra il protagonista e uomini e donne appartenenti a universi temporali sfuggenti, di una consistenza corporea sempre meno tangibile, e per questo poco inclini a rivelare la propria identità o appartenenza alla sfera del contemporaneo, o a qualche antro nascosto della mente del protagonista. La polvere della casa si fa dunque della stessa consistenza di un'umanità lasciata in disparte, pronta a fare capolino davanti agli occhi di Pietro, uomo che alla soglia della vecchiaia non può far altro che osservare per rimembrare, scrutare per ricordare, sopravvivere nel presente per abitare nel passato.
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COSTRUIRE UNA CASA CON I MATTONI DEL PASSATO
La casa come nido di fantasmi, paure, e timori è un topos che Bianchini recupera dal passato del cinema nostrano, da barlumi di tensioni sopite e terrore scritto con l'inchiostro del thriller da autori come Pupi Avati (La casa dalle finestre che ridono) e Dario Argento. Eppure, mai come adesso, l'essere umano si ritrova nella posizione scomoda di ritrovare in queste pareti domestiche sia spazio di sollievo, che gabbia claustrofobica. Rinchiusa per volontà propria, o altrui, nello spazio di pochi metri quadri dove l'unico legame con l'ambiente esterno è dato da delle finestre aperte, la mente smette di funzionare, salta i propri meccanismi, si ferma tornando indietro. Private di stimoli e soffocate da un buio opprimente, questi contenitori di rimorsi e traumi che per salvezza personale nascondono, come polvere sotto il tappeto, lingue di ombre mnemoniche sempre più dilaganti, vivono sulla scia di onde dei ricordi pronte a prendere il largo, affogando l'uomo. Il corrispettivo di questo viaggio infernale e granitico all'interno della mente è una trasposizione cinematografica giocata su inquadrature fortemente angolate, con riprese dal basso e dell'alto che distorcono ambienti e personaggi. Un universo colorato da sfumature nebulose, dato da una fotografia che non permette alla luce di farsi largo in un mondo che vive di ombre. Una patina polverosa e granulosa ammanta la vita di Pietro, i cui unici colori ancora liberi di esprimersi e accendersi sono l'azzurro dei suoi occhi (simbolo della potenza visiva di cui l'uomo si fa catalizzatore) e il rosso sangue che tutto pervade e tutto esalta a intervalli regolari. Per un uomo imprigionato da quattro pareti, l'unico elemento dotato di libertà è la cinepresa che, slegata da ogni freno, corre e si muove passando da inquadrature ristrette sui volti dell'uomo, a riprese aeree di una Trieste che fa da sfondo, spettatrice lontana e impassibile di una tragedia interna e intimista.
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DILATARE L'ANGOSCIA
È tutto disteso, dilatato, nel mondo de L'angelo dei muri. Il tempo passa ma senza una cognizione logica. Si perde la sua concezione, spostandosi da una sequenza all'altra a tentoni, insicuri, nello stesso modo in cui la piccola co-protagonista si muove nello spazio di casa. Ed è forse in questa estrema dilatazione che si ritrova il maggior punto debole del film. Se un allungamento narrativo, pieno di messe in pause, ed ellissi, avrebbe giovato alla resa finale di una pellicola sotto forma di cortometraggio, quando analizzata nei termini di un'opera di 100 minuti, a lungo andare ogni minuto pesa come un macigno. Una scelta assolutamente coerente con il fardello psicologico ed emotivo con cui deve fare i conti il protagonista, ma che rischia di distrarre, e stancare uno spettatore già perennemente al lavoro a livello mentale, alla ricerca di una motivazione e semplice interpretazione nascosta dietro ogni gesto, o semplice sguardo.
Respingente e attrattivo, L'angelo dei muri ha una forza subliminale e mefistofelica che prende e lega, con una corda impolverata, uno spettatore disarmato e suscettibile alla potenza di corpi aleatori, e sguardi indagatori, al confine tra reale e immaginario, vero e falso, presente e passato. Il tutto racchiuso tra pareti di una casa pronta a cedere sotto il peso del tempo passato, proprio come l'anima del suo proprietario, le cui fondamenta sono adesso materiale fragile, pronto a frantumarsi, e scuotere come un terremoto interiore, il protagonista, guida e vittima di un viaggio infernale all'interno della propria mente.
Conclusioni
Concludiamo questa nostra recensione de L'angelo dei muri sottolineando come il film di Bianchini si dimostra un thriller psicologico visivamente d'impatto, ma che cede sul peso di una dilatazione temporale a volte troppo eccessiva.
Perché ci piace
- Il mutismo del protagonista
- La costruzione visiva
- La fotografia ombrosa
Cosa non va
- L'eccessiva dilatazione temporale che fa risentire il peso di certe azioni messe in pausa