Dentro e fuori dalla realtà, in bilico tra i generi, avanti e indietro tra documentario e finzione dove a segnare il passaggio dall'una all'altro è spesso la rottura della quarta parete. Ci sono voluti quasi dieci anni, un viaggio nei Balcani, workshop partecipativi di casting e formazione e un'infinità di incontri ma alla fine Ludovica Fales ce l'ha fatta a portare in sala dal 25 gennaio, Lala, un progetto sulla "ricerca di una verità collettiva". Il film (che proveremo ad analizzare nelle recensione che segue) esplora attraverso tre piani di indagine i paradossi e le zone grigie della legge che in Italia regola l'ottenimento della cittadinanza. Al centro una generazione fantasma: ragazze e ragazzi di etnia Rom, nati e cresciuti in un'Italia che non li riconosce.
Tra documentario e finzione
Storie di identità sospese: così si potrebbero definire quelle che si intrecciano in Lala, un documentario con sprazzi di finzione che ripercorre le peripezie di tre giovani Rom, immigrate di seconda generazione condannate all'invisibilità dal labirinto burocratico che disciplina le norme sulla cittadinanza. "Con le parole si dicono un sacco di bugie, magari potremmo comunicare senza parole... 'zitti e muti', così non la sento più la favola che io sono come tutti gli altri", perché Lala uguale agli altri non lo è affatto, almeno per lo Stato italiano per il quale non esiste. È nata e cresciuta in Italia ed è madre di un bambino di pochi mesi, Toto, che è costretta a crescere da sola, ma è senza documenti.
Il suo peccato originale? Essere figlia di cittadini della ex Jugoslavia emigrati in Italia da Sarajevo durante la guerra nei Balcani, mai riconosciuti dallo stesso Stato che all'epoca li accolse; ora al compimento della maggiore età tra una settimana, Lala potrà provare a ottenere finalmente i documenti necessari a richiedere un permesso di soggiorno, ma l'unico modo per farlo è recuperare i certificati di nascita dei suoi genitori, rimasti sepolti chissà dove in Bosnia, c'era la guerra e "tutti correvano, chi ci pensava ai documenti!". Per Lala è l'inizio di una battaglia quasi kafkiana: senza documenti non potrà trovare un lavoro e senza reddito non potrà riavere il piccolo, che i servizi sociali le hanno portato via dalla casa occupata in cui vive. Ha solo una settimana per dimostrare al sistema di essere in grado di risolvere l'irregolarità.
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Un dramma generazionale
Un dramma generazionale che rischia di tramandarsi di madre in figlia e che la regista sceglie di raccontare attraverso un gioco di specchi e rimandi, ricomponendo le identità delle protagoniste tramite una struttura a matrioska: tre film in uno e uno per ciascuna delle figure raccontate. A interpretare Lala è infatti una non professionista, Samanta, diciassettenne cresciuta in un campo alla periferia est di Roma; madre rumena e padre serbo, si è in seguito trasferita con la famiglia in un appartamento nella stessa zona della città. Da poco ha ottenuto la cittadinanza italiana, dopo una lunga battaglia, e ha avuto una bambina che cresce insieme al compagno. E poi c'è Zaga, il suo doppio, la ragazza che ha ispirato questo film e dalla quale tutto è partito. Nata e cresciuta anche lei in un campo Rom della capitale, dove è andata a scuola, Zaga ha vissuto con suo figlio in un appartamento nella periferia romana per poi partire clandestinamente per l'Europa allo scoccare dei 18 anni: prima l'Austria, poi la Germania, il Belgio e infine la Serbia, il paese dove ha potuto ottenere la cittadinanza della sua famiglia d'origine e tornare in Italia per fare richiesta di permesso di soggiorno. Oggi Zaga vive alla periferia di Roma con una figlia e attende ancora di avere un permesso di soggiorno permanente.
Con lei il reale irrompe nello spazio narrativo di Lala, i loro racconti si incrociano, si rincorrono e riverberano l'uno nell'altro dando vita a una creatura ibrida: "verità, verosimiglianza e realtà" si sovrappongono, sfumano e smarginano. Tutto intorno si levano le voci di altri ragazzi Rom e sinti, che raccontano le proprie storie, sollevano interrogativi e offrono spunti di riflessione. Lala è un film profondamente stratificato e si presta a vari livelli di lettura: è viaggio attraverso il trauma dell'esilio, è ricerca di identità perdute, è ricomposizione della memoria, è racconto collettivo e voce di "un'intera generazione dai diritti indefiniti", altrimenti costretta al silenzio. Un monito al buon senso e alla "ricomposizione", perché solo rimettendo insieme i pezzi possiamo sperare di recuperare il senso dell'umano e del diritto di esistere ovunque.
Conclusioni
Come ribadito nella recensione del film, Lala è una creatura ibrida che tra documentario e finzione esplora i paradossi della legge italiana sull’ottenimento della cittadinanza. Un film manifesto per tutte quelle seconde generazioni condannate all’invisibilità dal labirinto burocratico che disciplina le norme sulla cittadinanza. Ragazzi e ragazze di etnia Rom privi dei documenti necessari a ottenere un permesso di soggiorno pur essendo nati e cresciuti nel paese, l’Italia, che ha accolto i loro genitori senza poi riconoscerli. La regista ha il grande merito di raccontarlo attraverso una narrazione collettiva e utilizzando tre diversi piani di indagine sapientemente combinati tra loro.
Perché ci piace
- L’abilità di combinare codici diversi in una valzer tra i generi: dal documentario alla finzione e viceversa.
- Cinema di impegno civile costruito attraverso un gioco di rimandi e specchi: tre film in uno e uno per ogni storia raccontata.
Cosa non va
- Difficile dire cosa non vada in un film che si impone per i temi e la lunga e complessa gestazione: quasi dieci anni.