Nella versione italiana il titolo alquanto sempliciotto potrebbe trarre in inganno, allontanando lo spettatore dall'accezione dell'originale francese en corps (letteralmente "nel corpo"): un film di rinascita e corpi, come proveremo meglio a spiegare nella recensione de La vita è una danza, in sala dal 6 ottobre. Dirige Cédric Klapisch, il regista de L'appartamento spagnolo e Bambole russe, e più recentemente della serie Netflix Chiami il mio agente!. Il suo ultimo lungometraggio è l'ennesima conferma del talento d'oltralpe e dello stato di salute del cinema francese che esplora i generi, li reinterpreta e come succede in questo caso sa indagare i rapporti umani attraverso l'arma della leggerezza con invidiabile maestria.
Una commedia sofisticata
Un po' commedia sofisticata e un po' parabola di resilienza, La vita è una danza sa intrecciare siparietti d'umorismo unici, riflessioni esistenziali, storie d'amore, di caduta e resurrezione usando la danza al di là di ogni prevedibile stereotipo. Il compito di accompagnare il pubblico dentro quella che si potrebbe erroneamente immaginare come una storia di sacrificio e rinunce tra tutù, punte e piroette, spetta ad un quarto d'ora iniziale praticamente quasi muto dominato da una sequenza di balletto classico, con la macchina da presa che scivola tra il dietro le quinte e la scena in un crescendo di tensione. Così Cédric Klapisch racconta gli attimi precedenti l'incidente che sarà il motore dell'intera vicenda: sono gli ultimi passi di danza della protagonista Elise, ballerina di danza classica all'apice del successo che vive a Parigi assieme al fidanzato, ballerino anche lui. Istanti di pura grazia prima che sul palcoscenico irrompa brutale la realtà: è in quei momenti concitati tra le linee perfette che piegano il corpo in pose plastiche e la vita che si agita dietro le scene, che Elise scopre il tradimento del compagno.
L'incanto si spezza e Elise cade rovinosamente a terra procurandosi un brutto infortunio: caviglia slogata e pausa di almeno due anni. Una diagnosi spietata che la costringerà ad allontanarsi dalle scene e a ripensare una seconda vita che non sia più sbarra, allenamenti e arabesque. Ma il cammino per la guarigione la sorprenderà portandola fino in Bretagna al seguito di una coppia di amici cuochi, Loïc e Sabrina, che allietano le serate di una residenza per artisti preparando piatti prelibati e servendo buon vino. Insieme all'amore qui Elise incontrerà la possibilità di rinascere, grazie al coreografo (Hofesh Shechter, nei panni di se stesso) di una compagnia di danza contemporanea ospite della tenuta.
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Il potere di essere fragili
La regia di Klapisch dà al film un'identità ben precisa: niente carni spezzate sotto l'imperativo della fatica fisica e del doversi riprendere a ogni costo, né tiri mancini da parte di acerrime rivali in tutù e calzamaglia, nulla di tutto quello che l'immaginario collettivo è abituato ad associare al mondo della danza. Il regista infila un altro tassello nel racconto di questo universo per il quale ha sempre nutrito profonda passione, come dimostrano Parigi e un suo documentario sulla ballerina Aurelie Dupont, ma lo fa spostando lo sguardo altrove: sulla lenta riconquista del proprio spazio nel mondo, sulla bellezza della fragilità che "è il nuovo superpotere", sulla possibilità di concedersi il tempo necessario a reimparare e rieducare anima e corpo ad una forma diversa di questa arte. Sullo schermo prende forma una commedia ispirata nella quale trovano posto alcune istanze femministe ("Quasi tutti i balletti raccontano di donne finite male, condannate a un tragico destino... donne derise, distrutte"), piccoli rituali amorosi, sentimenti di rinascita, la gioia di un "corpo liberato", le coreografie collettive.
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"La danza è accesso alla bellezza" ed è questo che interessa a Klapisch, poco importa che l'epifania avvenga librandosi in aria sulle punte o attraverso il ritmo più tribale, viscerale e animalesco della danza contemporanea che invece inchioda il corpo al suolo dando ad Elise l'opportunità di ricostruirsi una vita. Il cast è sempre all'altezza, una girandola di personaggi a cui in quasi due ore di film non sarà difficile credere; e non è un caso che la scelta sia ricaduta per alcuni ruoli su ballerini professionisti, sui quali spicca Marion Barbeau, étoile dell'Opera di Parigi, che interpreta la protagonista. Il corpo esile, l'incanto di uno sguardo di infinita grazia la aiutano a dare vita alla sua Elise, prima intimorita e zoppicante poi determinata a rialzarsi trascinata da una a forza quasi ancestrale. Pronta ad "approfittare di tutte le vite che la vita le darà".
Conclusioni
Come già ampiamente ribadito nella recensione di La vita è una danza, Cédric Klapisch conferma ancora una volta il proprio talento con un film sulla danza che è prima di tutto una storia di rinascita e corpi. Un’opera guidata dalla misura e dall’equilibrio, come dimostra un uso bilanciato e ragionato della musica, l’attenzione alle coreografie e il ricorso al genere della commedia sofisticata. Spazio ai sentimenti, alle riflessioni sull’esistenza e la fragilità come nuovo superpotere.
Perché ci piace
- Un film di rinascita e corpi, che usa la danza come metafora della vita ma tenendosi lontano da ogni prevedibile stereotipo.
- La capacità di bilanciare parti recitate e momenti di danza.
- Un cast di attori a cui non sarà difficile credere, molti di loro sono ballerini professionisti a partire dall’étoile dell’Opera di Parigi, Marion Barbeau, che regala al pubblico una protagonista di straordinaria umanità.
- Una storia universale che celebra il potere della fragilità e la capacità di “ricostruirsi” pezzo dopo pezzo.
Cosa non va
- Un titolo che nella versione italiana risulta fin troppo banale e semplicistico.