Titolo emblematico, nonché modernissimo. La vita accanto, secondo Marco Tullio Giordana, è quella che ci passa accanto, che si intreccia in un parallelismo impossibile da afferrare. La vita accanto, però, è anche il riflesso dello sguardo estraneo, puntato e giudicante. Più nel profondo, in un aggancio attuale, le molte vite accanto sono quelle che osserviamo attraverso gli schermo di un telefono. Vite da imitare, da criticare, da invidiare. Insomma, nonostante siano passati quasi quindici anni dal romanzo di Mariapia Veladiano, che ha appunto ispirato Giordana per il suo ritorno al cinema (se escludiamo Yara uscito su Netflix, l'ultimo del regista passato sul grande schermo è Nome di donna del 2018), La vita accanto amplia lo spettro di una storia lunga e larga (ma ristretta dentro quattro mura) finendo per scavalcare le diverse epoche, toccando quella contemporanea. Solo metaforicamente, però.
Se il film, presentato a Locarno, è effettivamente un'epopea famigliare, modellata sui tratti controversi dei protagonisti, il cinema diretto classico di Marco Tullio Giordana prova a puntellare una sceneggiatura non originale (scritta da Marco Bellocchio e Gloria Malatesta) ponendo al centro due allegorie che finiranno per alterare la storia, fino ad un finale che depotenzia l'intera struttura: da una parte il talento, dall'altra una macchia rossa che, condizionale è d'obbligo, deturperebbe la bellezza.
La vita accanto e la macchia della discordia
La macchia rossa in questione è quella della piccola Rebecca. Una voglia, un angioma benigno, sulla guancia di una bambina, figlia di Maria e Osvaldo (Valentina Bellè e Paolo Pierobon). Una bambina bellissima, ma immediatamente scansata da sua madre (personaggio contraddittorio, oscuro, crediamo ingiustificabile nella sua fragilità), impaurita da quella macchia che rovinerebbe quella figlia tanto voluta. La donna sprofonda in una depressione post-parto, provando a tenere a bada i pensieri di un paese che ghettizzerebbe Rebecca. Del resto, siamo negli Anni Ottanta, nel vicentino, e per lei il giudizio altrui è fondamentale. Meglio tenerla rinchiusa, nemmeno fosse Quasimodo dentro Notre Dame.
E il padre Osvaldo? Più amorevole di mamma Maria, anche se il tempo lo passa più con la sorella (Sonia Bergamasco), con cui ha un rapporto ambiguo e morboso. Gli anni volano e Rebecca diventa grande (ad interpretarla diverse attrici, da Sara Ciocca a Beatrice Barison, all'esordio): va a scuola, coltiva la passione per la musica, e non si arrende nel cercare un contatto con la madre, da cui riceve in regalo un pianoforte. Guarda caso, sarà proprio il pianoforte che farà definitivamente deflagrare la psiche di Maria.
Se il finale incrina il film
Perfezione e imperfezione, talento e mediocrità, rabbia e quiete. Le strade de La vita accanto risalgono la centralità del corpo, elemento che Marco Tullio Giordana declina secondo un racconto in costante dialogo con sé, nonostante l'accavallamento degli anni si incastri in un montaggio non sempre fluido, e anzi a volte brusco nel cambiare e nell'alternare i quattro blocchi narrativi (un po' troppi? Forse). Tuttavia, è il corpo che il regista si prefigge di raccontare, soffermandosi dunque sull'identità imprescindibile e sull'apparenza sociale. Le mani che suono il pianoforte, il pigmento rosso sulle guance, gli occhi che si strizzano. C'è un lavoro in questo senso, che sfrigola sul fattore tempo, cruccio e rifugio di una bambina non voluta da una madre incurabile (o magari sì?).
Non c'è dubbio che il coming-of-age di Giordana segua i canoni di una messa in scena statica, ciononostante è proprio la figura controversa di Maria a smuovere la storia: se Valentina Bellè la destreggia con un certo piglio, senza mai averne paura, è la sua depressione mista a fobia sociale a tagliare in più segmenti il racconto. Personaggio estremamente respingente, a tratti velenosa, l'involuzione di Maria viaggia di pari passo con l'evoluzione di Rebecca, almeno fino all'ending eccessivamente fuori fuoco, per non dire fuori tempo. Non vogliamo rivelare troppo, qualora anche un film come La vita accanto potrebbe essere soggetto al concetto di spoiler (visti i tempi), ma va assunto che un finale così costruito e immaginato svilisce il messaggio (fermo restando sia parte del romanzo originale, ma perché non rivoluzionarlo?), incrinando quell'identità a lungo preservata nella sua strada verso la normalizzazione, ma di colpo cancellata in nome di una noiosa e fuorviante perfezione.
Conclusioni
Toni neri, a tratti glaciali, per il ritorno di Marco Tullio Giordana. Adattando l'omonimo romanzo di Mariapia Veladiano, il regista riflette sul corpo, sul talento, sulla maternità, per una storia di provincia dai tratti universali. Se il cast è di ottima qualità, non tutto funziona: l'accavallamento temporale fatica a trovare una giusta dimensione, ma è poi il finale in un certo senso a svilire l'intero film. Non possiamo rivelare granché, ma è forse oggettivo sostenere che l'identità cardine, ricercata ne La vita accanto, sembra non voler essere portata ad ideale compimento.
Perché ci piace
- Un buon cast.
- Una buona atmosfera.
- Lo spunto.
Cosa non va
- Un finale decisamente discutibile.
- Non tutti gli accavallamenti temporali sembrano funzionare.
- Una certa staticità.