A trentasette anni, il volto di Raúl Arévalo dovrebbe essere ricordato dagli appassionati del cinema spagnolo fra i membri del cast della commedia corale Gli amanti passeggeri di Pedro Almodóvar (era uno degli esuberanti steward del volo) e come co-protagonista di uno dei film europei più apprezzati degli scorsi anni, il poliziesco La isla mínima. Arévalo, però, ha dimostrato anche grandi doti da regista con la sua prima prova dietro la macchina da presa, La vendetta di un uomo tranquillo, un noir duro e tesissimo, in uscita il 30 marzo nelle nostre sale grazie a BIM Distribuzione.
Interpretato da due impeccabili protagonisti, Antonio de la Torre e Luis Callejo, La vendetta di un uomo tranquillo è stato presentato con successo allo scorso Festival di Venezia, nella sezione "Orizzonti", e ha conquistato quattro premi Goya in patria: miglior film del 2016, miglior regista esordiente, miglior attore supporter per Manolo Solo e miglior sceneggiatura originale, scritta a quattro mani da Arévalo insieme a David Pulido. Un debutto fortunatissimo, insomma, che gli spettatori italiani avranno l'occasione di ammirare fra pochi giorni; nel frattempo a Roma abbiamo incontrato Raúl Arévalo, assieme al quale abbiamo parlato della pellicola, dei suoi temi principali e del suo particolarissimo sguardo sulla violenza contemporanea.
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Un debutto in noir: genesi e modelli del film
Qual è stato lo spunto che ti ha portato a scrivere il soggetto del film e di quale tema, in particolare, hai sentito il desiderio di parlare?
Lo spunto ce l'ho avuto nel bar di mio padre, un bar molto simile a quello del film, in seguito al commento di un cliente a proposito di una notizia del telegiornale: ha detto che se fosse capitato lo stesso a lui, avrebbe fatto fuori tutti. Ho pensato che una cosa del genere si vede spesso nei film di Hollywood, ma che metterla in pratica nella realtà non fosse poi così facile: pertanto desideravo mettere in scena una violenza che però risultasse secca, scarnificata nella sua essenza, e da lì è nata l'idea del film.
La violenza in effetti è rappresentata in primissimo piano nel film, ma non è mai gratuita né 'pornografica': come hai raggiunto questo difficile equilibrio?
La violenza gratuita non mi interessa affatto. Volevo mostrare la bruttezza della violenza, quindi in fase di pianificazione ho pensato a come rappresentare una violenza cruda, secca e non sempre mostrata direttamente: spesso la violenza è tenuta fuori campo, ma non per questo appare meno orrenda.
La scena iniziale, con la rapina e l'inseguimento automobilistico, è un incipit di enorme impatto e formidabile a livello tecnico: avevi in mente fin da subito di aprire il film in questo modo?
Sì, sapevo fin da subito che quella sarebbe stata la scena iniziale, era proprio una dichiarazione d'intenti; così come avevo già in mente il principio di una macchina da presa che rimanesse addosso ai personaggi. L'inizio doveva essere quello di un film di genere, e a livello tecnico è stata senz'altro la sequenza più difficile da girare: volevo che ci fosse il cappottamento dell'automobile ma non volevo usare pupazzi o stuntman, quindi abbiamo dovuto costruire un'auto speciale che permettesse all'attore di 'rovesciarsi' all'interno della vettura, ma senza alcun pericolo.
In veste di attore, un paio d'anni fa hai riscosso un enorme successo interpretando un altro noir, La isla mínima: quell'esperienza ti ha influenzato in qualche modo nella realizzazione di un film di genere simile come La vendetta di un uomo tranquillo?
Sono un grande fan del regista de La isla mínima, Alberto Rodríguez, ho visto tutti i suoi film e il suo cinema mi ha insegnato tantissimo. Però quando ho recitato ne La isla mínima il mio film era già ad uno stato avanzato, l'avevo già ideato e scritto; quindi La isla mínima non è stato per me una particolare fonte di ispirazione.
Quali sono stati allora i tuoi principali modelli per questo debutto alla regia?
A parte tutti i registi con i quali ho lavorato come attore, per diversi motivi mi ha ispirato molto il cinema di Carlos Saura, in particolare i suoi lavori degli anni Sessanta e Settanta, per quanto riguarda la Spagna; dalla Francia Jacques Audiard, dal Belgio i fratelli Dardenne, dall'Italia Matteo Garrone... sono questi i miei punti di riferimento. Mi piacciono anche i polar francesi così come il neorealismo italiano, e magari nel mio film se ne trova qualche traccia, ma questi sono stati più che altro riferimenti per la mia formazione da cineasta, e non per questo film nello specifico.
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Il seme dell'odio
Parlando invece dell'aspetto creativo de La vendetta di un uomo tranquillo, quanto contava per te l'elemento dell'empatia da suscitare nei confronti di protagonisti così oscuri e tormentati?
Ho lavorato apposta con un co-sceneggiatore psicologo perché per questi personaggi volevo ottenere un ritratto quanto più possibile fedele alla realtà, senza dimenticare ovviamente che si tratta di un film. Ho cercato di non giudicare i personaggi, sperando che lo stesso avvenisse per il pubblico. Negli spettatori si verifica una sorta di contraddizione: ci sono momenti in cui ci si avvicina al protagonista, fin quando lui non commette un'azione terribile e quindi ci respinge di nuovo, in una continua oscillazione. Ritengo molto interessante anche il punto di vista dello spettatore, chiamato a scommettere sull'etica di José; qualcuno, ad esempio, dopo aver visto il film mi ha detto di aver appoggiato comportamenti che io invece non avrei mai appoggiato.
A questo proposito, hai pensato che in qualche modo la rabbia e la violenza sul punto di esplodere dei tuoi personaggi possano rispecchiare pulsioni esistenti attualmente in Europa e nella società occidentale?
Senza avere alcuna pretesa di analisi sociologica, tuttavia la società sta dentro di me e io faccio parte di questa società: una società caratterizzata da rabbia, violenza e odio. Forse è sempre stato così, ma oggi in un modo un po' strano in Europa, negli Stati Uniti, ma pure in Oriente si percepisce questa sensazione di odio e di violenza repressa, e come regista mi interessa andarla a osservare e studiare.
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Una nota di speranza
Rispetto ai due comprimari così feroci e tormentati, nel tuo film i personaggi femminili potrebbero essere considerati come un appiglio all'umanità e alla 'normalità'?
I personaggi femminili non vogliono 'ancorare' quelli maschili a una famiglia, ma attraverso queste due donne volevo conferire al film una specie di 'luce', una forma di speranza. Probabilmente si avverte che è un film con una forte componente di testosterone, fatto da uomini, mentre mi interesserebbe sempre di più indagare l'animo femminile, credo che ce ne sia molto bisogno. Il mio prossimo progetto da regista, infatti, avrà appunto una protagonista donna, ma per ora non posso dirvi nient'altro.
Attenzione: da qui in poi si accenna al finale del film, quindi non continuate a leggere se preferite evitare qualunque tipo di spoiler
A questo proposito, l'epilogo si chiude proprio con una nota di speranza: come mai questa scelta?
Il finale in effetti è stata la parte più meditata, pensata e ripensata di tutto il film: non sapevo quale sarebbe stato finché non siamo arrivati alla versione definitiva. Nel finale mi prendo una sorta di licenza poetica: nella realtà il protagonista sarebbe andato senz'altro fino in fondo con il proprio progetto, avrebbe ucciso tutti. Si tratta comunque di un epilogo falsamente speranzoso: a salvarsi è soltanto l'onore di José, che tiene fede alla propria parola, ma non so quanta speranza ci sia effettivamente per il futuro dei personaggi superstiti. Nonostante tutto questo però è vero, volevo chiudere con un pizzico di speranza.