La vecchia guerra
Numerosi anni di travagli produttivi, dubbi, difficoltà e lo spettro del fallimento del progetto hanno preceduto Le rose del deserto: l'ultima regia del grande vecchio del cinema italiano Mario Monicelli. Ed è curioso leggere sui materiali della stampa di presentazione del film: sessantacinque film diretti, ottantacinque sceneggiati e allo stesso tempo 'un battesimo' per Monicelli nel genere del kolossal eroico. Ma non sono bastate alcune forzature, gli interventi cospicui (ma in realtà deleteri) della post-produzione, un cast ragguardevole, quanto la partnership tra Luna Rossa Cinematografica, Rai Cinema, Mikado e il contributo statale, a salvare un film nato male e finito peggio. Almeno sotto il profilo qualitativo.
Le rose del deserto racconta l'italietta della seconda guerra mondiale attraverso un gruppo di militari in missione nel deserto libico. L'accampamento ricorda più quello di una disorganizzata vacanza che un avamposto militare e a guidare le truppe c'è Stefano Strucci: un intellettuale dall'animo sensibile inpersonificato da Alessandro Haber. Il suo diretto superiore è un esaltato gerarca fascista (Tatti Sanguineti) che si fa vedere sporadicamente per mettere ordine nella truppa in cui esercita il suo dovere svogliatamente anche un tenente medico appassionato di fotografia (Giorgio Pasotti) e un energico prete dai metodo poco ortodossi interpretato da Michele Placido. E mentre la guerra procede toccando anche l'accampamento libico, Stefano perde la sua amata moglie lasciandosi andare al suo destino.
Se dovessimo prendere in considerazione Le rose del deserto per fare il punto sullo stato d'arte del cinema italiano per ciò che concerne l'aspetto produttivo - non commerciali si badi bene, visto lo stato di generale salute che il nostro cinema pare aver riscoperto negli ultimi due anni - ci sarebbe davvero da preoccuparsi. Il cinema italiano, si sa, rifiuta di farsi industria (nonostante il segnale lanciato in questo senso la Romanzo Criminale) ma nello specifico catapulta su di sé un'imbarazzante sensazione di dilettantismo. Da una parte infatti sono sotto gli occhi di tutti i limiti tecnici del progetto; dall'altra si sceglie di affidare un film del genere a un uomo che ha dato tantissimo al cinema italiano ma che francamente non sembra in grado di padroneggiare, per tipo di sensibilità e per limiti anagrafici, una produzione che qualche decade fa sarebbe potuta essere risolta da un visionario come Mario Bava o da qualche esperto artigiano, ma che nelle mani di un grande regista di commedie che ha superato i novant'anni si trasforma in un ibrido piuttosto disorientante.
In questo senso le responsabilità di Monicelli vanno molto ridimensionate e il suo modo di intendere il cinema, che attualmente oltre che fuori tempo massimo, appare obiettivamente anche privo di mordente, sembra fungere come una ideale giustificazione, anche un po' cinica, ai potenziali risultati nefasti. E fa bene quindi Monicelli a respingere al mittente l'accusa di aver ecceduto nei toni farseschi, sostenendo che chi conosce il suo cinema sa l'importanza che ha la comicità e la farsa nei suoi film. Piuttosto, Le rose del deserto mostra un regista poco lucido nelle modulazioni drammaturgiche, indeciso su quando prendere una strada piuttosto che un'altra e deciso di conseguenza a aggrapparsi al suo sentire e vedere a tutti i costi. Per fallire a cuor leggero, certo di aver messo ancora una volta sè stesso nel suo cinema, anche quando questo non gli appartiene più. Perché non sta a chi si esprime comprendere se si ha ancora qualcosa di urgente e importante da dire, ma a chi permette quest'espressione.