La tragedia di essere madre
C'è qualcosa di estremamente affascinante in quei film che si interrogano con intelligenza sulle difficoltà che genitori e figli incontrano nei propri rapporti, sempre difficili, in alcuni casi addirittura impossibili. Anche il cinema italiano più recente sceglie di muoversi su un terreno filosofico per mettere a confronto padri e madri con la propria progenie. A Venezia avevamo visto il bel film di Paolo Franchi sulla necessità di un figlio di uccidere il padre per trovare liberazione dai propri incubi, un'opera ingiustamente penalizzata per la sola colpa di aver osato volare alto. Alla Festa di Roma passa quest'anno un film altrettanto bello ed imperfetto, L'amour caché di Alessandro Capone, coprodotto da Italia, Lussemburgo e Belgio, che va questa volta ad indagare l'amore impossibile tra una madre e sua figlia nella Parigi di oggi, una storia coi toni da tragedia greca dominata dal dolore e dal sentimento di inadeguatezza dei suoi protagonisti.
Tratto dal diario autobiografico Madre e ossa di Danielle Girard, L'amour caché racconta della disperazione di una donna costretta ad essere madre, a provare per la propria figlia quell'affetto obbligatorio per chi mette al mondo una nuova creatura. Isabelle Huppert non è nuova a personaggi inquieti ed inquietanti. Qui interpreta il ruolo di una donna tormentata dal bisogno di amare la propria figlia, ma devastata dall'incapacità di essere madre, un sentimento che non riesce a sentire, ma che è necessario nel mondo degli esseri umani, a differenza di quanto avviene nel regno animale dove le madri sono legittimate a uccidere i propri figli appena partoriti.
Ricordi in bianco e nero, deliri dai colori saturi e il bianco asettico di una vita sciupata in una clinica dopo l'ennesimo tentativo di suicidio: sono le tre differenti fotografie scelte per raccontare una storia sbagliata nel passato, che si dibatte nei tormenti del presente e manca totalmente di un futuro. Capone nel mettere in scena questo dolore tutto al femminile si ispira chiaramente alla lezione delle avanguardie storiche, ed in particolare al cinema sperimentale di Maya Deren che sembra richiamare nei numerosi passaggi dissonanti. La battaglia personale tra madre e figlia si gioca nel campo neutro di una clinica psichiatrica, nei suoi spazi claustrofobici, mediata da una psicologa che cerca di mettere ordine nel groviglio di emozioni che spezza l'equilibrio mentale della protagonista, una donna che non riesce più ad esprimersi e si tormenta continuamente le mani come per strapparsi di dosso un'angoscia che non può essere sopportata ulteriormente.
Elemento fondamentale del film è la musica che sottolinea l'inquietudine che sottende l'intera vicenda e Capone è bravo ad usare anche questa nel farci entrare poco a poco nell'universo amaro di una protagonista intrappolata in un tragico limbo. Il film va però perdendo d'efficacia nella parte finale, affidata ad una conclusione perfetta, con il sacrificio della figlia a salvare la vita alla propria madre e la chiusura di un cerchio che possa offrire alla donna la possibilità di riappropriarsi di sé stessa, liberando il proprio amore prendendosi cura del cucciolo della propria figlia. Capone s'è fatto le ossa in televisione dirigendo numerosi sceneggiati, qui mostra però un gusto finissimo per impianto narrativo e scelte estetiche, confezionando un film che di certo al cinema non sfigurerà.