La testa fuori dalla sabbia
Il cinema iraniano esce spesso per le strade, fotografa corpi in eterno movimento, testimonia gli shock che la globalizzazione produce continuamente sulla cultura di un paese dal ruolo sempre più critico nello scenario politico internazionale. Oltre le regole del gioco e le mosse dei potenti restano però le persone, gli esseri umani che nel piccolo delle proprie vite private si costruiscono una sopravvivenza tra stenti e bisogno di mantenere intatta una forma qualsiasi di purezza per preservarsi dalla volgarità del mondo. Nel nuovo film di Majid Majidi, un onesto lavoratore, marito e padre che ricorda molto da vicino l'Antonio Ricci di Ladri di biciclette, gira per le montagne che circondano il villaggio dove vive insieme alla famiglia, alla ricerca di uno struzzo scappato dal proprio recinto per colpa del quale ha perso il lavoro. Nell'impossibilità di ritrovare il pennuto perduto, Karim comincia a girare in sella ad una motocicletta per le strade di Teheran nella speranza di trovare un'occupazione qualsiasi che possa permettergli il mantenimento della propria famiglia.
L'uomo però, impegnato nella difficile ricerca di un lavoro in città, si allontana dalla genuinità della sua vita quotidiana e perde di vista i bisogni affettivi dei suoi cari che vorrebbero semplicemente stargli accanto e allentare le sue responsabilità. Distratto dal lavoro, Karim riapre gli occhi sulle persone che lo circondano solo quando un incidente lo costringe a letto: attorno a sé si muove dappertutto l'amore e il rispetto, che vengono a lui come in una processione naturale, tra una moglie premurosa e figli che scalpitano per fare di lui un padre fiero. Pellicola dal doppio registro, comico e drammatico, e dall'animo innocente come i personaggi che insegue, The Song of Sparrows fa della quotidianità più semplice una melodia dal gusto dimenticato che è un piacere tornare ad assaporare. Questo continuo scambio di bisogni, che allaccia con un nodo stretto i sentimenti di un padre in affanno e quelli di figli pronti a crescere e a fornire il proprio aiuto alla famiglia, ha i colori abbaglianti della vita che sboccia in ogni istante, da ogni piccolo gesto, e il sapore di un'innocenza da preservare che sa farsi poesia nei suoi soffi più leggeri.
Il film di Majidi mantiene sempre un'incisiva dimensione di realismo, concedendosi però di tanto in tanto qualche parentesi surreale (come la scena in cui il protagonista gira su una montagna, travestito da struzzo, nella speranza di richiamare l'animale scomparso), affrontata con grande bravura da un cast composto da esordienti, ad eccezione del protagonista Reza Naji, che offre performance perfette in quanto a naturalezza. Irresistibili i siparietti con gli struzzi indisciplinati e i viaggi del protagonista per le strade della città che gli lasciano sempre in dono un nuovo aggeggio, più o meno inutile, destinato ad essere accatastato con gli altri nel giardino della propria casa, ma ad incantare del film è ogni esplosione di vita che il regista riesce a cogliere con enorme sensibilità. Le immagini prendono perciò il sopravvento sui dialoghi, specialmente quelle aeree che immortalano i bambini operosi e i loro sogni variopinti, danno conto delle connessioni che esistono tra l'uomo e la natura e da sole danno voce all'universo interiore di persone ai margini del mondo ricco che cercano il modo più dignitoso per sopravvivere. Un cinema sincero che sa farsi meraviglia.