Ad aprire La terra di Dio è la lunga inquadratura fissa di una fattoria che, dalla penombra della notte, viene rischiarata dai primi, tiepidi bagliori dell'alba. La sequenza successiva è ambientata invece all'interno di un bagno: la cinepresa è incollata alla schiena ossuta di Johnny Saxby, in preda a conati di vomito, per poi mostrarci un primo piano del ragazzo, con la bocca semiaperta e occhi spenti dai quali trapela un indefinibile smarrimento.
Non è l'ultima volta che quel viso dai tratti marcati sarà al centro dello schermo. Perché sono proprio lo sguardo sfuggente di Johnny, la sua espressione spesso cupa o imperscrutabile, a costituire il vero motore narrativo di un film perlopiù silenzioso e sommesso, in cui i personaggi parlano il meno possibile e raramente affidano ai discorsi i propri stati d'animo, quasi sempre trattenuti, celati o repressi.
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Passione nella terra di Dio
God's Own Country, la "terra di Dio" del titolo italiano, è la campagna dello Yorkshire: uno scenario desolato e suggestivo, in cui la bellezza di quel verde sconfinato, di quei paesaggi in cui non sembra esservi traccia della presenza umana, si fonde alla ruvidità della vita rurale: una vita vissuta in condizione di isolamento, un isolamento che il film riesce a trasmettere fin dalle sequenze iniziali. Opera prima, dopo tre cortometraggi, dell'attore inglese Francis Lee, quarantasette anni all'epoca delle riprese, La terra di Dio si è imposto fin dalla sua presentazione al Sundance Film Festival 2017 come uno degli esordi più apprezzati degli ultimi tempi, raccogliendo numerosi riconoscimenti in patria, incluso il British Independent Film Award. Un successo, per gli standard del cosiddetto circuito arthouse, che ha rivelato quella che potrebbe diventare una delle nuove voci più interessanti della scena britannica.
L'istantaneo termine di paragone, per la pellicola di Francis Lee, è stato rappresentato ovviamente da I segreti di Brokeback Mountain, il celeberrimo melò da Oscar diretto da Ang Lee nel 2005 e diventato da subito una pietra miliare del cinema queer; un'affinità dovuta non solo, com'è ovvio, alla storia d'amore omosessuale al cuore di entrambi i film, ma ad una pluralità di aspetti narrativi, tematici e stilistici. Se in Brokeback Mountain la passione fra i due protagonisti si manifestava all'improvviso nella solitudine delle montagne del Wyoming, un "piccolo mondo" lontano dalla società e dal timore dei pregiudizi, La terra di Dio si sviluppa a partire da un soggetto pressoché identico: Johnny, impersonato da Josh O'Connor, dà sfogo alla propria omosessualità in segreto, con incontri occasionali nelle toilette dei pub, fin quando la sua strada non si incrocia con quella di Gheorghe (Alec Secareanu), un giovane immigrato rumeno assunto come lavoratore stagionale nella fattoria della famiglia di Johnny.
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La ballata di Johnny e Gheorghe
Le dinamiche fra i due comprimari, dalla muta diffidenza fin troppo ostentata ad una scontrosità anche fisica, per arrivare infine alla carnalità incontenibile dell'attrazione reciproca, ricalcano in pratica quelle mostrate nella prima parte del film di Ang Lee, ma con una differenza sostanziale: laddove in Brokeback Mountain la cornice naturale finiva per assumere contorni quasi da locus amoenus (si pensi pure al ruolo delle musiche), nell'opera di Francis Lee il realismo della messa in scena non si approssima mai all'idillio bucolico, così come l'intreccio sentimentale rimane ben lontano dai territori del melodramma. La terra di Dio resta fedele infatti a un approccio semi-documentaristico: che si tratti della cruda descrizione del lavoro e della quotidianità di una fattoria o del naturalismo delle sequenze erotiche, con corpi avvinghiati scompostamente e macchiati di fango, in un bizzarro connubio fra brutalità e dolcezza.
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In questo modo, Francis Lee riesce a raccontare l'educazione sentimentale di Johnny e l'evoluzione del suo rapporto con Gheorghe evitando qualunque sensazione di artificio o di forzatura retorica: gli ostacoli all'amore fra i due giovani sono perlopiù interiorizzati, appartengono allo stesso Johnny e alla sua difficoltà (una sorta di afasia?) nell'entrare in contatto con il resto del mondo e nel riconoscere il valore dei propri sentimenti. E al film, dunque, basta una manciata di scene e di battute per rendere significativi gli altri due personaggi in gioco, benché sullo sfondo: Martin (Ian Hart), il padre invalido di Johnny, e Deirdre (Gemma Jones), la nonna che osserva con taciturna apprensione gli sbalzi umorali del nipote. Un nipote che, nel ventiseienne Josh O'Connor, trova un interprete perfetto, misuratissimo ma anche intenso, capace di far trapelare già solo con lo sguardo l'invisibile turbine di conflitti e di emozioni di un protagonista impegnato nella scoperta di se stesso.
Movieplayer.it
3.5/5