La storia di Souleymane è un film estremamente cinematico, oltre essere socialmente e politicamente rilevante. Non c'è un attimo di tregua, il respiro si restringe, l'atmosfera diventa inarrestabile, forsennata. C'è uno studio scenico ben definito, e organizzato al meglio dal regista, Boris Lojkine, che torna a parlare di migranti e sopravvivenza dopo il suo film d'esordio, Hope, uscito ormai dieci anni fa. La storia di Souleymane, presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2024, tra l'altro si aggancia ad una nuova narrativa europea (oggi certo più vivida rispetto alla sempre più sbiadita narrativa statunitense), che non rinuncia alla "spettacolarità" - quindi non rinuncia al coinvolgimento - facendosi però cinema reale, e quindi legato a situazioni che ben conosciamo.
Non è un caso che ci sia la figura del rider al centro del film ("lavoro del futuro" che a noi sembra tanto schiavismo del passato), e non è un caso che nel 2024 sia uscito un altro film che allarga lo sguardo su quel popolo invisibile che sfreccia tra le strade delle metropoli. Parliamo del notevole Anywhere Anytime di Milad Tangshir, che come La storia di Souleymane si pone come piano di racconto nei confronti di un immigrato spinto ai margini. Prerogative e nette differenze tra i due film, ma è peculiare la nota in comune: ancora un volta il cinema arriva prima, e meglio.
La storia di Souleymane, una Parigi che sembra New York
Boris Lojkine ci porta a respirare le vibrazioni di una Parigi contemporanea, stressata e nervosa. Al centro, un giovanotto immigrato, Souleymane (Abou Sangare), che dalla Guinea si ritrova nella Ville Lumiere, aspettando con ansia il visto che regolerebbe il suo status di rifugiato. Intanto, come può, tira avanti. Come? Come quasi tutti gli immigrati: facendo il rider. Ma per fare il rider ci vogliono i documenti, e allora lui sfrutta l'app di uno suo amico per lavorare. Tra l'altro, ogni sera, deve prenotarsi un letto per dormire, da raggiungere tramite pullman. Una vita impossibile. Intanto, le ore passano e si avvicina il momento del fatidico colloquio.
Cinema reale, e necessario
A schiaffo, la regia di Lojkine non sta mai ferma. La camera si muove, si contorce, sembra quasi in ritardo rispetto alla corsa di Souleymane, sballottolato tra un ordine e l'altro. Per questo, in apertura di recensione, abbiamo scritto di quanto il film si avvalga di una messa in scena fortemente cinematografica. Cinema metropolitano, nudo e crudo, che si divincola dall'artificiosità divenendo specchio di quarantotto ore vissute al limite. Un limite che non prevede orpelli ma solo disperata sopravvivenza. Scelta ponderata che esclude, quindi, la colonna sonora. Non c'è musica. Anzi, la musica di La storia di Souleymane diventa il gracchiare strombazzante del traffico parigino. E poi le voci, il fermento, i decibel di un'atmosfera sovraesposta, in cui il protagonista tenta, come può, di restare a galla.
Grande cinema e grande regia, oltre ad un prospetto umano (in questo caso rappresentato dall'esordiente Sangare) che ha la capacità di tenere sotto controllo un crescendo inesorabile, e quindi rispecchiando, senza forzature o esagerazioni, un cosmo quotidiano, rivisto tramite un controllo ragionato (ma forse fin troppo palese nella sua facilità didascalica) che esalta ancora di più l'ambientazione schizzata. Se il dosaggio cinematografico è quindi ben costruito, La storia di Souleymane risulta ancor più rilevante se accostato al nuovo realismo cinematografico odierno, capace di sopperire alla totale indifferenza dello Stato (in un'epoca ideologica che ha totalmente fallito, complice un'inadeguata classe politica) per mezzo dello strumento artistico. Di nuovo, un mezzo non solo narrativo, ma pure un mezzo in grado di scambiare le prospettive, approfondendo e affrontando con le giuste parole un mondo contemporaneo inospitale e poco avvezzo all'empatia.
Conclusioni
Non c'è un attimo di respiro in La storia di Souleymane. Notti infinte e il traffico che corrode, vicenda di un rider che prova a resistere, aspettando il fatidico colloquio che dovrebbe dar lui la cittadinanza. Un film cinematografico, per narrazione e messa in scena, che utilizza al meglio lo schema geografico di Parigi, enfatizzando il tutto con un sound design immersivo.
Perché ci piace
- La regia di Boris Lojkine.
- L'uso del sound design.
- Il ritmo.
- Il finale.
Cosa non va
- Poco da sottolineare in negativo: forse alcuni momenti troppo didascalici?