Lo chiariamo subito: La società della neve non è mai morboso, mai scenografico, mai estemporaneo rispetto ai fatti raccontati, e narrati seguendo fedelmente i terribili avvenimenti. Dall'altra parte, nella sua oggettività sacrale, J. A. Bayona sceglie il linguaggio dell'esperienza cinematografica più pura per mettere in scena "il ritorno dalla morte" dei sedici superstiti del volo 571, schiantatosi sulle Ande il 13 ottobre del 1972. Con una riflessione, che torna, a più riprese, negli estenuanti 144 minuti: ciò a cui stiamo assistendo, è una tragedia o un miracolo? Ci torneremo, ma come prima cosa, ad aprire la recensione, scriviamo che La società della neve (Society of the Snow, titolo internazionale, con cui è stato presentato a Venezia 80), distribuito da Netflix (il quarto presentato al Lido nel 2023), non abusa mai del materiale originale, né approfitta di un facile dolore. Preferisce un tono introspettivo, soffermandosi sui dettagli, sulle labbra screpolate, sugli oggetti recuperati dai cadaveri e custoditi in uno scrigno, a futura memoria e a testimonianza immortale.
Un'introspezione lucida, coerente, protagonista nel percorso umano di un pugno di uomini, spinti oltre qualsiasi limite, sfiorando con mano un inferno dove si brucia dal freddo - e una riflessione su quanto siamo predisposti alla lamentela facile. Oltre il senso del survival movie, e più un romanzo che artiglia lo stomaco, che scuote la testa, lasciando una scombussolata sensazione alla fine della visione. Come se fosse una sorta di liberazione, come se il respiro trattenuto per quasi tre ore (sì, dura troppo, bisogna tornare in sala di montaggio), tornato regolare, fosse l'aggancio tra il cinema e la realtà. Perché ciò che vediamo nel film di J.A. Bayona, che ha adattato The Snow Society: The Definitive Account of the World's Greatest Survival Story di Pablo Vierci, è ottimo cinema che incontra l'opprimente cronaca di un dramma sconcertante.
La società della neve, una terribile storia vera
Un po' di contesto, per capire meglio: La società della neve, come già scritto nel nostro approfondimento, è la storia vera del disastro aereo delle Ande, in cui persero la vita 29 persone, contando 16 sopravvissuti. A bordo dell'aereo, gestito dall'areonautica militare uruguayana, c'era la squadra di rugby al completo degli Old Christians Club, compresi amici, tecnici, famigliari, personale di bordo. Il film di Bayona, intelligentemente, non si incastra troppo nelle dinamiche del disastro, prendendo quasi immediatamente il filo del discorso nel bel mezzo dello schianto, affidando parte della narrazione al punto di vista di Numa Turcatti, interpretato da Enzo Vogrincic Roldán, con un voice over perfettamente amalgamato alla colonna sonora di Michael Giacchino.
La stessa musica che sembra coincidere con l'umore delle Ande, a tutti gli effetti le protagoniste del film nella loro naturale scenografia, e riprese dal regista come se fossero dei giganti silenziosi, immobili davanti lo sgomento. Dunque, dosando parole e respiri, Bayona ricompone i 72 giorni di sopravvivenza, addentrandosi nelle dinamiche, nelle scelte, nella lotta per non impazzire, con un accennato riverbero emotivo nonché religioso: i 16 superstiti, infatti, sono riusciti ad andare avanti cibandosi dei corpi delle vittime, scendendo a compromessi con la propria coscienza.
La società della neve: la terrificante storia vera dietro il film Netflix di J.A. Bayona
Tra miracolo e tragedia
Tuttavia, il tono de La società della neve, per intuizione di Juan Antonio Bayona (regista spesso indeciso, che pare ora abbia trovato una sua dimensione), non indugia mai sull'atto cannibale in sé, declinando l'intera situazione come se fosse un diretto confronto tra l'anima e la testa delle persone coinvolte. Per farla breve: non è questo il fulcro del film, né della storia in sé. Piuttosto, c'è una tridimensionalità rispettosa, di reverenza davanti alla catastrofe, e di sincero trasporto emotivo quando i superstiti, con le sparute scorte cibo ormai finito (biscotti e cioccolata), si trovarono a compiere un atto indicibile. Anche perché il film è un manifesto sulla forza della ragione, sulla fermezza, sulla sopravvivenza come atto stesso di fede, e quindi di speranza - ricordando che le persone coinvolte erano e sono credenti.
Un film diviso in due, compatto nella tecnica (che bella la fotografia di Pedro Luque) quanto nella nevralgia di una sceneggiatura dal forte impatto, rinchiusa dal regista in una carcassa metallica nel bel mezzo di un palcoscenico innevato e roccioso. Come fosse una matrioska: il cielo, le montagne, la carlinga dilaniata, e poi ancora le emozioni dei protagonisti, intorpidite ma coscienti, debilitate ma tenaci. Tutto in serie, tutto a fuoco, tutto in primissimo piano secondo l'idea di Bayona, che allarga l'immagine utilizzando un esasperato grandangolo, quasi a volere superare i limiti di una prospettiva senza happy ending che, però, rincorre la compassione. Una prospettiva tenuta in vita dalla coriacea perseveranza di chi non ha ceduto alla tragedia, credendo invece in un miracolo. Un miracolo umano, e non divino.
Conclusioni
Concludendo la recensione de La società della neve, rimarchiamo la scelta del regista di optare per una visione oggettiva e mai morbosa, ponendo l'attenzione sull'introspezione, sul dramma delle scelte, sulla sopravvivenza come fede. Ottima tecnica, buoni interpreti, una durata probabilmente eccessiva.
Perché ci piace
- Le scelte narrative, mai eccessive o morbose.
- La prospettiva delle vittime.
- Il senso di comunità nel dramma.
- Rendere le Ande le vere protagoniste.
Cosa non va
- Dura troppo.