Gli adolescenti fanno paura: non sono più bambini, non sono ancora adulti; sono possibilità inespresse, ma minacce concrete, e questo quando sono ragazzi che alle spalle hanno famiglie "normali". Non è il caso di Malony, orfano di padre con una madre drogata, debole, inaffidabile, che lo pianta la prima volta nell'ufficio del giudice tutelare che segue il suo caso quando ha appena sei anni nella scena di apertura di A testa alta - una delle più potenti del film, capace di sprofondarci in pochi minuti in un ingestibile inferno a misura di bimbo.
Non ha che una madre che potrebbe raccontare trascorsi altrettanto desolanti, questo ragazzo che la regista e sceneggiatrice Bercot si sforza di spogliare di tutti gli stereotipi del giovane scavezzacollo: non è figlio d'immigrati, Malony, non ha un padre spacciatore, non si sfoga con sport, con la musica o con l'arte; è solo un ragazzino perduto, che ha la fortuna di trovare chi crede in lui in un sistema di tutela giudiziaria della minore età, che, tra burocrazia, verbali e scartoffie, è fatto soprattutto di persone, e le persone sono capaci di un'abnegazione e di una pazienza straordinarie.
Burocrati o eroi
Non lo siamo tutti: il film ci mette di fronte a una situazione che molti sperimentano sulla propria pelle, a tu per tu con la nostra inadeguatezza nell'affrontare un ragazzo imprevedibile, violento, che non fa che deludere le nostre aspettative, vanificare ogni nostro sforzo. Contemplate quella rabbia, abbracciate quel disprezzo, accettate quei limiti: è il dono che ci fa questa storia, suggerita alla Bercot dall'esperienza personale di uno zio impegnato proprio nel recupero dei giovanissimi delinquenti che nessuno ama e a cui nessuno sa parlare. Accettare la nostra impotenza significa apprezzare l'incredibile pervicacia e di chi non li può salvare tutti, ma ci prova, magari sacrificando affetti e ambizioni, rinunciando alla propria serenità, mettendo perfino a rischio i propri cari.
La dignità prima della pietà
C'è una storia triste nel passato di tanti delinquenti, criminali, stupratori e assassini. Le pagine di cronaca sono piene di lamenti e recriminazioni e richieste di compassione. Non si giustifica nessuna violenza indirizzando le ragioni che sottendono a un comportamento socialmente inaccettabile nei giovani e poi negli adulti, ma si indica una responsabilità che tutti compete, quella dei giovani come futuro irredimibile della società, i giovani delusi, i giovani spaesati, i giovani abbandonati. C'è qualche oscuro eroe fallibile, come il fragile Yann di Benoît Magimel, qualche faro nella nebbia, come la ferma, autorevole eppure materna giudicessa interpretata da Catherine Deneuve, che si fanno carico di quello che dovrebbe essere un compito di tutti noi: proteggere la dignità di ogni individuo.
Perché se il fallimento è inevitabile, la speranza è tenace, e la dignità è ciò che ci rende umani.
Movieplayer.it
3.0/5