Un'apertura in grande stile per l'undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, con un film che è destinato a fare parlare di sé durante l'imminente stagione dei premi cinematografici, per lo meno per quanto riguarda i riconoscimenti elargiti dalla critica; e Moonlight è anche uno di quei film - perché ce n'è più di uno - che potrebbero pavimentare quest'anno la via verso la "redenzione" in nome della diversità per l'Academy of Motion Picture Arts and Science dopo le polemiche targate #OscarSoWhite.
Se si può parlare di un cinema black, Moonlight è cinema black: ispirato e realizzato da autori di colore - Barry Jenkins ha basato il suo film sul dramma teatrale In the Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell McCraney - e interpretato da alcuni tra i più talentuosi interpreti black sulla scena attuale, dal carismatico Mahershala Ali a una trasfigurata Naomie Harris, dalla versatile Janelle Monae fino a quella forza della natura che è il giovanissimo Ashton Sanders.
Naturalmente con questo non vogliamo dire che Moonlight parli solo di (e a) un popolo, una cultura, un contesto sociale; parla a tutti e sa farlo magnificamente. L'esperienza che racconta, con lirismo e autenticità, è un percorso personale e particolare che tutti abbiamo gli strumenti e i sentimenti per comprendere. Siamo tutti umani sotto la luna.
Essere diverso a Miami
Chiron ha nove anni e qualcuno gli ha affibbiato un soprannome - Little, piccolo - che non gli va particolarmente a genio. Probabilmente ha imparato presto a non protestare, a tacere e a fuggire da chi vede una qualche forma di minaccia nella sua vulnerabilità, in quella delicatezza così anomala tra i ragazzini delle classi povere di Miami; ha imparato a nascondersi anche dall'unico familiare che ha al mondo, la madre tossicodipendente. Quando incontra Juan, un affascinante e paterno spacciatore di origine cubana, sembra aprirsi per lui uno spiraglio di speranza, la speranza di trovare un posto al mondo, per quanto angusto, dove è il benvenuto.
La casa, l'affetto di Juan e della sua ragazza Teresa sono l'unica cosa a cui Chiron si aggrappa disperatamente mentre gli anni passano senza portare serenità né chiarezza, e tutte le promesse della sua bellezza, della sua sensibilità e della sua intelligenza s'infrangono sull'impietoso argine di una vita criminale, come quella dell'unico modello che ha avuto, e di una solitudine infinita.
Chiron in tre atti
Barry Jenkins dimostra una straordinaria sintonia con il materiale di partenza, il dramma di McCraney, e ne conserva le ambientazioni e la struttura in tre atti. così incontriamo Chiron in tre fasi della sua vita e in tre incarnazioni diverse (rispettivamente il piccolo Alex Hibbert, il già citato wonder boy Ashton Sanders, e l'atletico, e quasi altrettanto bravo, Trevante Rhodes). Ma dell'origine teatrale Moonlight conserva anche e soprattutto la cifra stilistica più specifica e rilevante, il rapporto profondo con presenza, la psiche e il corpo del protagonista, che riesce a evocare miracolosamente attraverso una messa in scena di sconcertante naturalezza e un'attenzione maniacale ai dettagli nelle performance. Ai tre Chiron, ma anche ai loro comprimari, viene chiesto di comunicare soprattutto con sguardi, silenzi, gesti e fisicità, e il risultato è questa intimità miracolosa che non ci abbandona per tutto il film e ci permette di condividere ogni sfumatura della sofferenza, della rabbia, della frustrazione e dello struggimento sensuale del protagonista.
Così, per quanto distante possiamo credere che sia la nostra esperienza personale da quella di Chiron, Moonlight ci permette di abbracciare il suo percorso in maniera totalizzante, trovando la strada verso le nostre sofferenze e i nostri balsami; e qui sta il più importante dei i suoi trionfi: saper raccontare un outsider, una vita "diversa" e ai margini, dimostrandoci che siamo uguali a lui, che in fondo la strada per la conquista dell'identità ci accomuna tutti e le differenze non sono che dettagli insignificanti, ingigantiti dalla paura e dall'ignoranza.
Movieplayer.it
4.0/5