Difficile vincere se si combatte contro un'ombra. Evanescente e ingombrante, il ricordo del grande pugile Apollo Creed opprime come un peso massimo suo figlio Adonis, orfano di entrambi i genitori, cresciuto in un riformatorio dove ha imparato la rabbia e appreso il risentimento. Un fardello portato addosso per anni, anche dopo essere stato affidato alla moglie di Creed, che lo cresce nell'agio, lontano da ring e guantoni. Ma Ryan Coogler, alla sua seconda regia, ama raccontare vite vincolate al destino, percorsi obbligatori che conducono in un solo posto. Se con l'apprezzato Prossima fermata: Fruitvale Station aveva raccontato la sorte beffarda di un giovane accompagnato verso una morte insensata, questa volta il richiamo del fato viene dal sangue, da un flusso inevitabile che riporta alle origini.
Ed è così che Creed - Nato per combattere segue un palpitante ritmo cardiaco, fatto di accelerazioni e arresti, di pugni nello stomaco e di carezze, abbracciando alla perfezione il mito di Rocky Balboa, mai scomodato a caso, mai invitato all'ammiccamento fine a se stesso, perché qui Sylvester Stallone si fa mentore indispensabile per il bene di una bella storia. E allora se l'ombra è astratta, non resta che specchiarsi nel volto stanco e segnato del vecchio Stallone (italiano), dentro il suo sguardo languido e la sua bocca umida, bagnata da troppe spugne gettate. In lui il giovane Creed riconosce un padre mai avuto e soprattutto un figlio che impara ad accettarsi, semplicemente trasformandosi in se stesso.
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Prossima fermata: Philadelphia
A proposito di specchi, questo Creed si riflette solo qualche attimo nel passato glorioso segnato dalla saga di Rocky; sembra seguirne le mosse e gli insegnamenti, per poi trovare una crepa tutta sua dove insinuare una nuova mitologia. Balboa appare e scompare dietro di lui, è un fantasma solido che guida per poi dileguarsi, segna come affrontare una scalinata per poi farla calpestare al suo giovane allievo. Il film si apre come Rocky, con uno scontro sperduto in un ring di quart'ordine, ma la sequenza successiva già evidenzia la distanza tra i due combattenti. Perché quella di Rocky era una storia partita dai margini, da case fredde e scorticate, vicenda di un uomo costretto alla delinquenza per mancanza di alternative e occasioni poi colte. Il percorso di Adonis, invece, parte da dimore lussuose con pavimento in marmo; la sua non è una salita, ma un calarsi nella vita, dove è necessario affrontare e non fuggire.
E il carattere del giovane Creed, interpretato da un Michael B. Jordan innervato di muscoli e sfumature, è molto più complesso della classica testa calda che riversa sul ring la sua frustrazione. Donnie lotta prima di tutto contro la percezione altrui, contro il suo atteggiarsi come chi non è, la sua irrequietezza mal riposta. La saga continua a ribadire il ring come luogo emblematico che si sveste da teatro sportivo e diventa un'occasione per combattere battaglie tutte personali. E salta in mente un ricordo. Prima di affrontare Apollo Creed, Rocky si confida con l'amata Adriana dicendole: "L'unica cosa che voglio è resistere". Anche qui l'obiettivo resta del tutto privato, ovvero dimostrare di non essere un buffone dal cognome comodo, un fenomeno in credito con i geni paterni. Così, ancora una volta la priorità non è tanto colpire, ferire per mandare al tappeto, ma resistere, imparare ad incassare.
Intimo ed esistenziale, Creed viene raccontato dallo sguardo sensibile di Coogler che si avvinghia ai volti e ai corpi dei personaggi. E se per le strade di Philadelphia il giovane regista si sofferma sulla segnaletica dei sensi unici, sul ring opta una regia elastica che si avvicina e si allontana dai pugili, rispettandone le distanze e i ritmi di lotta, grazie ad un uso magistrale del piano sequenza e ad un sonoro che esalta i sibili dei guantoni. Ma l'impressione è che i pugni a cui dare più peso siano quelli dei saluti amichevoli tra amici, degli abbracci in famiglie improvvisate, mentre la mano possente di Rocky si poggia sulla spalla di Donnie e viceversa.
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La forza del tempo
Pagine di storia, leggende e miti. La saga di Rocky è soprattutto questo e Creed ne porta i segni addosso, partendo dai nomi dei suoi personaggi, quasi marchiati a fuoco. Perché se Apollo Creed aveva il nome di una divinità e il cognome di una star, anche Adonis scomoda la mitologia di un semidio (Adone) cresciuto senza genitori. Coogler è consapevole di questo immenso peso iconico e si sofferma più volte a riprendere i simboli di un tempo passato, glorificato, eternizzato. Storiche scalinate monumentali, statue, fotografie e persino vecchi video su Youtube che proiettano la Storia. Ma in mezzo a questo museo di ricordi impolverati, qualcuno si muove ancora, ed è uno straordinario Sylvester Stallone imbolsito dal dolore e affaticato dagli anni; un padre mancato e un marito solo pronto ad affrontare l'ennesima sfida.
La grandezza di Creed sta nel suo rapporto con il passare del tempo, per una volta non combattuto ma affrontato, non schivato con ironia ma accettato per quello che è. Il corpo solido e pesante di Rocky ammette di non poter più indossare i guantoni, così non gli resta che rivedersi nello sguardo ostinato di Adonis, incassare e gestire l'ultimo round della sua esistenza. Il dovere di combattere e il bisogno di accettarsi diventano priorità comuni al mentore e all'allievo, entrambi costretti ad imparare e ad insegnare. Sorretto da questa nuova e preziosa consapevolezza, Balboa diventa il fulcro di un film bellissimo, sincero e semplice nel mettere in scena un incontro tra generazioni lontane eppure vicinissime. Senza mostrare alcun bicipite, Stallone mette finalmente in mostra il muscolo del cuore e lo fa ammettendo la forza del tempo che passa. Ma forse, per chi va ogni giorno al cimitero per donare rose a vecchi amori e drink a vecchi amici, raccontando loro delle storie, il tempo ha solo imitato il vecchio Apollo. Come su quel ring, come in quel lontano 1976. Ha vinto ma non lo ha battuto.
Movieplayer.it
4.0/5