A distanza di sei anni da Nemico pubblico - Public Enemies, uno dei più grandi registi viventi torna al cinema con quello che poteva quasi essere considerato un blockbuster (non fosse altro per il budget di oltre 70 milioni di dollari e per la presenza della star Chris Hemsworth) ma che invece arriva in Italia quasi in sordina, complice l'accoglienza gelida della critica statunitense e soprattutto il sonoro flop al botteghino americano.
Eppure questo Blackhat di Michael Mann non è in fondo un progetto così differente da quanto potevamo immaginare visti i nomi coinvolti: certo, chi si aspetta un action thriller più classico potrebbe rimanere deluso dalla mancanza di un gran numero di scene adrenaliniche e spettacolari (anche se quelle poche sequenze presenti sono assolutamente memorabili), così come chi cerca un intreccio cybernetico in cui il mondo della pirateria informatica venga finalmente rappresentato in modo verosimile e dettagliato dovrà cercare altrove. Ma nel film di Mann, come sempre accade nel suo cinema, c'è molto altro.
Ritorno alla realtà
Dopo un inizio ricco di avvenimenti, come un'esplosione in una centrale nucleare ad Hong Kong ed una truffa alla borsa di Chicago, e la presentazione di tutti i personaggi coinvolti, il primo vero guizzo del film arriva con una trovata semplicissima ma densa di significati, una trovata particolarmente esemplificativa del cinema di Mann: il genio informatico Nick Hathaway è appena uscito dal carcere e si ritrova sulla pista di decollo di un aeroporto privato, accolto dal Capitano Chen Dawai, vecchio compagno del college che l'ha voluto con sé per sventare questi brutali attacchi informatici; prima di imbarcarsi sull'aereo e per questa pericolosa missione, Nick semplicemente si ferma a guardare nel vuoto, ad osservare la pista, il cielo, l'orizzonte. La libertà. Il mondo reale che gli era stato tolto dal carcere e dalle sue azioni. La cinese Lien, sorella dell'amico, lo osserva, ne coglie il disagio, e con naturalezza gli accarezza il braccio e gli chiede se sta bene.
Per la prima metà del film questa corsa forsennata da una parte all'altra del mondo alla ricerca di un qualsiasi indizio, che sia un indirizzo IP o un semplice nome, non è poi diversa, per Nick e per noi spettatori, dall'infiltrarci in un computer o dal rubare un'informazione in segreto. E' una guerra astratta, eterea, un qualcosa che Nick accetta perché per lui potrebbe significare un ritorno alla vita reale. Ma Nick non si rende conto che la prigione è già alle spalle, e che quanto ha davanti ai suoi occhi, come la squadra con cui sta collaborando o la missione che ad essa lo lega, è già la realtà a cui aspira. E' ancora il rapporto con Lien, fatto soprattutto di sguardi e silenzi, a trascinarlo finalmente nel mondo tangibile, un modo fatto di sentimenti ed emozioni, ma anche sangue, dolore e morte.
Il mondo dei fantasmi
L'altro universo, invece, quello virtuale del misterioso ed anonimo villain che il team rincorre da una parte dall'altra del globo, rappresenta l'intagibile, l'inafferrabile, un universo in cui né luogo né tempo sembrano aver significato. E' l'universo che Nick aveva fatto suo, che l'aveva reso solo e intrappolato, ancor prima di finire in carcere, quello in cui si fa chiamare Ghostman, quasi fosse uno spettro invece che un uomo. Michael Mann ci introduce a questo mondo con una sequenza iniziale di grande impatto, in cui veniamo trascinati all'interno dei cavi ottici che collegano i server e poi direttamente nei circuiti per osservare lo scambio di dati e informazioni, quasi fossero migliaia di automobili che si muovono rapidissime nel traffico di una silenziosa e cupa città.
Una sequenza che per certi versi non può non ricordare quella di apertura di Film rosso di Krzysztof Kieslowski, un'opera che, in modo diverso ovviamente, già affrontava alcuni di questi temi. Nel film del regista polacco la sua protagonista provava (inutilmente) a parlare con il fidanzato lontano, ma nemmeno i milioni di chilometri di cavo riuscivano a colmare quella distanza, a porre rimedio a quell'incomunicabilità che era al centro del film. In Blackhat le distanze apparentemente non esistono più, sono state ormai abbattute dalla tecnologia, ma ci hanno trascinato in un mondo che ha preso il sopravvento, che si è andato a sostituire a quello reale, quello fisico, al quale a volta non siamo più in grado di tornare.
Del tangibile e l'intangibile
Il contrasto tra questi due mondi apparentemente inconciliabili è il cuore di Blackhat, ed è probabilmente il motivo per cui il film non è piaciuto (o non è stato capito) negli USA. Può un film essere un action thriller ed al tempo stesso una riflessione d'autore? Dopo aver visto all'opera Michael Mann la risposta non può che essere affermativa, perché sebbene la sceneggiatura sia a tratti approssimativa e l'intreccio meno interessante di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, è ancora una volta l'equilibrio tra azione e riflessione, il colpo di una pistola ed un "semplice" sguardo, a colpire così come era già stato per il magnifico Miami Vice.
Come già detto le scene d'azione non mancano e sono di rara bellezza, in particolare una improvvisa e brutale sparatoria notturna che si conclude nel peggiore dei modi per i nostri eroi, ma anche in questo caos lo sguardo di Mann indugia sugli spazi e sulle luci, si fa sguardo della stessa vittima, ed ancora una volta ci mostra un (gratta)cielo, un simbolo di quell'11 settembre cui si accenna appena ma che è una presenza (tangibile e intangibile) in tutto il film.
Sguardi e silenzi
Se ormai non stupisce più la straordinaria capacità di Michael Mann, già ampiamente dimostrata dieci anni fa con Collateral, di rappresentare la notte attraverso il digitale e senza l'utilizzo di luci di scena, a colpire è soprattutto l'intensità di alcune sequenze, non tanto quelle d'azione già citate ma quelle immediatamente precedenti o successive; a lasciare senza fiato per la loro bellezza e per la profondità del non detto è per esempio tutta la mezz'ora finale, in cui i protagonisti quasi non parlano, eppure riescono ad esprimere molto più di quanto sia stato fatto nella prima (più didascalica) metà del film.
Se i silenzi sono potentissimi, a colpire però è anche la colonna sonora, a cura di Atticus Ross e Harry Gregson-Williams; quest'ultimo ha accusato pubblicamente Mann di aver fatto a pezzi la musica che lui aveva composto, e ha quindi disconosciuto quanto invece è presente nel film. Ma visto il risultato di grande impatto, più che un'accusa a noi sembra quasi una celebrazione del genio di un regista che non guarda in faccia a nessuno nel portare avanti un suo cinema personalissimo ed estraneo anche alle regole del mercato.
Un finale simbolico
Che Michael Mann sia un regista sopraffino e dalla sensibilità unica, ce lo conferma soprattutto il bellissimo finale, in cui il reale e il virtuale si fondono, e lo stesso Nick sembra quasi trasformarsi in un virus che si insinua non visto tra la folla e colpisce. Per poi svanire nel nulla e non lasciare alcuna traccia, proprio come un fantasma.
Movieplayer.it
4.0/5