Lewis Carroll e Tim Burton. Lo scrittore-matematico britannico e il regista americano, un incontro delirante di penne e immagini, pagine e schermi. Entrambi rigorosamente fuori dagli schermi. Uomini divisi da circa un secolo ma, almeno sulla carta, anime gemelle, o meglio, animi in subbuglio sin dalla capigliatura arruffata, quasi a confermarne l'inquietudine assieme alla passione comune per mondi paralleli, realtà altre dove raccontare il disagio dell'ordinario ed esaltare la diversità, intesa come via maestra per sentirsi veramente liberi. Quando nel 2010 Alice in Wonderland arrivò al cinema, sollevando l'onda lunga dei film live action tratti dai grandi classici animati, sembrava l'incontro perfetto tra due visionari innamorati della stranezza, abili narratori in grado di ribaltare punti di vista soliti grazie a riflessioni simboliche, con la metafora a fare da unica bussola dentro universi pieni di allegorie e suggestioni visive.
Purtroppo così non fu e l'entusiasmo iniziale, confermato da ottimi incassi, lasciò spazio alla perplessità, ad un film ispirato solo scenograficamente, ma dove i personaggi erano afflitti da una scrittura povera, a tratti persino irritante. Così, mentre Alice appariva una spettatrice monocorde sballottata qua e là, il Cappellaio Matto di Johnny Depp diventava l'incarnazione di un'opera senza meraviglia nel suo cilindro, bloccata in uno strano limbo, a metà strada tra la fiaba disneyana e un gotico dark fantasy. Ora Alice è cresciuta, si guarda allo specchio con più consapevolezza, e sembra aver imparato dai proprio errori. Ce lo dimostra questo Alice attraverso lo specchio, una fiaba più semplice, con meno pretese e più sincerità, senza imbarazzanti deliri ma diretta a vele spiegate verso una storia più classica e conciliante, rivolta verso quel mare in cui è impossibile non navigare chiamato "famiglia".
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Quel che Alice trovò
Avevamo lasciato Alice pronta a salpare sulla nave paterna, ormai stanca di seguire rotte imposte dalla rigida società ottocentesca. La giovane, ormai cresciuta e sempre più risoluta, è finalmente al timone di se stessa, guidando da capitano la sua ciurma in appassionanti viaggi per mari, sempre alla ricerca di nuove terre e scoperte continue. Ma la vita non è fatto solo di desideri e curiosità, perché il ritorno a Londra mette Alice davanti ad un bivio: aiutare sua madre o levare per sempre l'ancora che la lega alle origini? Nel bel mezzo di questo dilemma, la bionda avventuriera preferisce perdersi per trovare le risposte. Questa volta a prenderla per mano nessun bianconiglio col panciotto, ma il saggio Brucaliffo (la cui voce originale, va ricordato, è di Alan Rickman) che la guida verso il ritorno nel Sottomondo.
Giusto il tempo di un cameo del tanto atteso Humpty Dumpty, e riecco Alice alle prese con l'insolita tristezza del Cappellaio Matto, colpito da un doloroso ricordo. Se nel primo film Alice era guidata dagli altri, per rispettare le tappe volute da una mitica profezia, ora è si tratta di una questione più personale, di un suo atto di fede, del voler credere o meno nell'impossibile nonostante gli occhi ormai più adulti. James Bobin senza strafare, dosando qualche raro sussulto registico in una direzione piuttosto lineare, si lancia in un'avventura a ritroso, indietro nel tempo, scomodando il ricordo di fantasmi dickensiani e del terzo capitolo di Harry Potter. E tra lancette e tanti piccoli secondi che si assemblano in grossi minuti, per Alice scocca l'ora delle scelte.
Tempo al Tempo
All'interno di questo nuovo volo pindarico in uno strambo altrove, il ruolo giocato dal Tempo è sicuramente l'aspetto più interessante e affrontato con più cura, estetica e narrativa. Alice attraverso lo specchio concede al Signore degli orologi un volto, una forma, le fattezze di Sacha Baron Cohen, ma se la performance del comico risulta (come sua abitudine) troppo grottesca, la rappresentazione scenica del suo mondo ha il sapore delle più riuscite creazioni disneyane. Potente, affascinante e immaginifico, il Tempo non gode solo di una messa in scena ispirata, ma anche del significato più pedagogico e formativo per i giovani spettatori. Bobin dirige così un film per ragazzi che, alla fine, tradisce gli aspetti più trasgressivi, oscuri e anticonformisti del testo originale per adagiarsi su un'opera dalla morale classica, ordinata e ordinaria. Mentre sullo sfondo emergono paesaggi e ambienti in un trionfo esasperato di CGI, l'attenzione si sposta sul vissuto di tutti i personaggi principali, tutti segnati da vicende familiari determinanti.
E se il Cappellaio Matto di Depp, opaco e spento, è finalmente più misurato e credibile (con qualche nota di dolente malinconia alla Willy Wonka), il rapporto tra le due sorelle regine non va oltre il banale. Per una volta il sequel ci appare migliore del primo capitolo, e succede per una semplice questione di aspettative. Perché, al contrario di Alice in Wonderland, Alice attraverso lo specchio non vuole irrompere nei nostri occhi urlandoci contro, non ha intenzione di agitare chissà quali maree, ma navigare in acque calme verso porti sicuri. E in viaggi del genere non vi è né meraviglia, né grande sorpresa, ma soltanto qualche gradevole conferma. Come quando ci guardiamo allo specchio.
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2.5/5