L'uscita, o comunque la lunga permanenza nel "dietro le quinte" della politica italiana (oggi più che mai animata da altri umori e personalità) sembra aver convinto Walter Veltroni a puntare decisamente sul cinema. Materia, quella della Settima Arte, che il fondatore del PD ed ex sindaco di Roma ha in realtà toccato più volte nel corso della sua vita: dapprima come studente (diplomato all'Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione), poi come giornalista (qualcuno ricorderà i suoi brevi interventi critici, nel corso degli anni '90, sul Venerdì di Repubblica), infine come promotore e sponsor principale di una manifestazione importante, quanto discussa, come la Festa Internazionale del Cinema di Roma.
La frequentazione tra Veltroni e il cinema, quindi, è fatto di lunga data, e nessuno può negare sia legata a una passione (dal punto di vista spettatoriale) sicuramente autentica: la sequenza iniziale di questo suo secondo lungometraggio, un montaggio di sequenze di classici, vecchi e nuovi, che vedono bambini protagonisti (si riconoscono, tra gli altri, I 400 colpi, Stand by me - Ricordo di un'estate e Billy Elliot) ribadisce chiaro il concetto.
Veltroni vuole però, evidentemente, legare questa sua nuova "carriera" da regista a un'idea di racconto del paese, alla necessità di ricostruirne, attraverso volti e vicende emblematiche, passato e presente: in questo senso andava letto Quando c'era Berlinguer, documentario che cercava di legare volti e storie della sinistra (e non solo) italiana nel ricordo di uno dei suoi simboli; e in questo senso va letto anche questo I bambini sanno, che si propone di descrivere l'Italia di oggi (e, indirettamente, un pezzo di quella di ieri) attraverso lo sguardo peculiare e originale dei suoi cittadini più giovani.
Frontalità e sguardi decentrati
Il regista sceglie di inframezzare a un'ossatura basata su una "messa in scena" che è il più essenziale possibile (una serie di interviste ai piccoli protagonisti - trentanove in tutto, tra i 9 e i 13 anni - ripresi frontalmente, ognuno all'interno della sua cameretta) alcuni intermezzi che a volte illustrano, a volte contrappuntano visivamente, le loro stesse parole. Le interviste sono organizzate, tematicamente, intorno ai grandi temi della vita, dell'amore, delle passioni, del rapporto con Dio, della crisi economica, della famiglia e della sessualità. Il quadro che ne risulta è quello di un puzzle composito e (nonostante la scansione tematica) piacevolmente disordinato; in cui a volte si fa fatica a rintracciare un filo conduttore e una direzione precisa, in cui volti e temi si confondono e sovrappongono, e in cui, fino alla fine, vengono aggiunte testimonianze e punti di vista nuovi. Il risultato è a tratti spiazzante, per lo spettatore, ma in fondo non è questo un problema: lo sguardo e il punto di vista dei bambini è "anarchico" per definizione, e il film sceglie, in questo senso, di sposarne l'attitudine. Più degno di interesse, tuttavia (ma anche più discutibile) è il fatto che il regista abbia scelto, in gran parte, soggetti provenienti da realtà particolari, decentrate quando non immerse direttamente nella marginalità: la figlia di una coppia di musulmani, il bambino che vive in un campo rom (ed ha avuto il padre in carcere), quello che si è visto uccidere un genitore dalle Brigate Rosse, la figlia adottata di una coppia di lesbiche. Nelle trentanove, piccole storie raccontate, c'è ovviamente un ampio spettro di esperienze e situazioni, ma lo sguardo (e il minutaggio) del film sembrano privilegiare realtà come quelle sopra descritte: i figli di normali famiglie "borghesi" non sarebbero stati forse in grado di offrire un punto di vista altrettanto interessante, e altrettanto originale, sui temi oggetto di trattazione?
Il ruolo della regia e del montaggio
Il problema principale di questo I bambini sanno, tuttavia, non sta nemmeno nella "scelta di campo" fatta dal regista, nella selezione della porzione di realtà da rappresentare (che, per quanto discutibile, rientra comunque in un discorso di legittime scelte tematiche). Il punto critico sta, semmai, proprio nel modo in cui Veltroni mette in scena il suo composito racconto: e in come sceglie di affidarsi prevalentemente (se non esclusivamente) alla forza delle parole, e dei racconti, dei suoi piccoli protagonisti. Quello che colpisce di questa seconda esperienza da regista del politico, è proprio come questi abbia di fatto, per gran parte del film, abdicato al suo ruolo; e come abbia deciso di assolvervi, in quei frangenti in cui l'ha fatto, in quello che si è rivelato il peggior modo possibile. Nella sua ossatura, il film si lascia trasportare (in modo, come già specificato, spesso anarchico) dalle parole e dai racconti dei suoi soggetti/oggetti di osservazione: il regista, e l'occhio della macchina da presa, restano quindi coscientemente dietro le quinte, limitandosi a osservare e registrare.
Ma Veltroni, in realtà, non ha neanche il coraggio di percorrere fino in fondo questa strada (che avrebbe potuto dar adito a un'opera con una sua coerenza, che tuttavia andava sfoltita): così, decide di introdurre tra un'intervista e l'altra i già citati intermezzi, che quasi sempre banalizzano e appesantiscono, didascalicamente, le parole dei piccoli intervistati. È proprio il didascalismo uno dei grossi problemi di questo documentario: a un riferimento e a un racconto corrisponde spesso una sequenza che ne illustra, inutilmente e pedantemente, i contenuti. Questa formula, reiterata per tutta la durata del film, e portata avanti con un montaggio piatto e scolastico, finisce per rendere la visione oltremodo tediosa: lo stordimento a cui accennavamo in apertura, frutto dell'organizzazione un po' anarchica dei diversi interventi, non esclude che complessivamente l'incedere della pellicola sia monotono, per non dire monocorde. In più, la scelta del commento sonoro si rivela particolarmente infelice: per fare solo un esempio, le ariose composizioni di Danilo Rea, sulle immagini di sporcizia e abbandono del campo rom, creano un contrasto decisamente stridente, ma evidentemente non voluto.
Così, se va riconosciuta sicuramente la sincerità di intenti di un prodotto come questo (che, nel bene e nel male, si rivela figlio del suo autore, e dell'idea di politica e cultura che egli ha sempre - coerentemente - incarnato) va detto che il risultato artistico rivela evidenti limiti intrinseci: i suoi motivi di interesse sono tutti nelle voci, negli sguardi e nei racconti (a volte divertenti, a volte spiazzanti, altre volte persino inquietanti) dei suoi giovani personaggi. A mancare, però, è un'idea di cinema, di narrazione (che è un concetto esistente - e operante - anche in un documentario) di messa per immagini del materiale umano che si è voluto raccontare. Un peccato, perché alle potenzialità dell'idea, e a quegli sguardi come a quelle storie, si sarebbe potuto rendere un servizio sicuramente migliore.
Movieplayer.it
2.0/5