Per iniziare la nostra recensione de La ragazza d'autunno non possiamo che sottolineare fin da subito il talento eccezionale del russo Kantemir Balagov, classe 1991, che al suo secondo film dimostra di avere la caratura di un Maestro. Vincitore come miglior regia e miglior film FIPRESCI nella sezione Un certain regard dello scorso Festival di Cannes, La ragazza d'autunno è un dramma esistenziale con due protagoniste eccezionali e dove le emozioni vengono sussurrate fino ad un catartico finale.
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Una storia di persone e ferite da rimarginare
Siamo nella Leningrado del 1945. La seconda guerra mondiale è terminata lasciando macerie e ferite. Ferite che non sono solo quelle dei corpi martoriati dei soldati, ma anche quelle dell'animo, invisibili a occhio nudo. La giovane infermiera Iya (una straordinaria Viktoria Miroshnichenko) soffre di un tipo di stress post-traumatico che la costringe a inaspettati momenti di paralisi, il suo corpo si sblocca e la respirazione si fa pesante.
Iya è madre di un bambino di due anni, Pascha, di cui si prende cura amorevolmente nonostante le difficili condizioni di vita. L'arrivo della sua migliore amica e collega Masha (un'eccezionale giovanissima Vasilisa Perelygina), congedata dal fronte, costringerà le due donne ad affrontare un evento nefasto e a cercare di ritrovare la forza di vivere nel primo autunno del dopoguerra.
Il colore caldo del mondo e il freddo dell'anima
La Leningrado de La ragazza d'autunno è rappresentata da Kantemir Balagov e dal direttore della fotografia Ksenia Sereda come un luogo luminoso. Durante tutto il film i volti dei personaggi sono illuminati da una luce solare, calda, quasi accogliente, creando una patina che ricorda l'estetica di un dipinto. Si ha la sensazione percepibile che i tempi cupi siano terminati e che la luce stia di nuovo scaldando il mondo. Anche gli abiti che i personaggi indossano, spesso caratterizzati da colori vivaci, richiamano questa volontà di rinascita e di vita nuova. Eppure il film non lesina in momenti drammatici, strazianti e, in certe occasioni, pure tragici.
C'è uno scontro di base tra l'esteriorità, a prima vista calda, amorevole, una realtà dove si cerca la condivisione, e l'interiorità, fredda, macchinosa, egocentrica. Se la città appare provata, ma facilmente ricostruibile, ben più complesso è rimettere in sesto l'animo umano in cui attimi di felicità si trasformano facilmente in odio represso. Concentrandosi su Iya e Masha, sulla loro storia, sul loro rapporto di amore e odio, sulla loro difficoltà a ricominciare a vivere, il film sembra richiamare temi e dinamiche del miglior Ingmar Bergman. Sensazione accentuata dalla scelta delle due nuove e giovanissime attrici (incredibile pensare che abbiano solo 25 e 23 anni e siano al loro primo film!) che in più di un'occasione ricordano l'alchimia tra Liv Ullmann e Bibi Andersson anche grazie alla loro differenza caratteriale ed estetica (alta e bionda la Miroshnichenko, più bassa e mora la Perelygina).
L'insostenibile goffaggine dell'essere
Il titolo originale del film è Dylda che in russo ha il significato di "spilungona". Non è un caso che la regia di Balagov, con la sua camera a mano, si concentri su Iya, alta più delle persone che la circondano. L'altezza e la magrezza della ragazza, unite al disagio della paralisi, la rendono un po' estranea al mondo che la circonda sottolineandone la sua individualità. Ma il termine russo che dà il titolo al film vuol dire anche "goffaggine" e nel corso del film il punto di vista della narrazione si moltiplica concentrandosi anche su Masha e sulla sua goffa storia d'amore con Sasha, un ragazzo benestante ma insicuro.
Questa goffaggine è presente in tutti i personaggi e nel loro tentativo di ricominciare ad avere una vita normale, il film col passare del tempo si conferma infatti una storia corale, non solo individuale. La difficoltà esistenziale di Iya contamina anche gli altri personaggi diventando quindi un film sul popolo, sulla collettività e sulla tragedia comune. Storia di sentimenti mai urlati, lasciati sottotraccia come le ferite da cui si cerca di guarire: La ragazza d'autunno sembra che a tratti giri a vuoto, mancando il bersaglio che riguarda le emozioni, ma il finale, liberatorio e perfetto, ci dimostra il contrario.
Conclusioni
Concludiamo la recensione de La ragazza d’autunno con una citazione di un celebre brano di Fabrizio De Andrè che pare riassumere al meglio il senso profondo di un film sicuramente promosso: “Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”. Raffinato e delicato nella messa in scena, sorretto da interpretazioni magistrali e diretto con la mano di un regista maturo nonostante la giovane età, La ragazza d’autunno, pur risultando a tratti poco indulgente verso lo spettatore, si dimostra un film imperdibile, capace di scavare a fondo nell’animo umano e di mettere in mostra le ferite interiori dei personaggi indagando sulla dualità di vita e morte, amore e odio.
Perché ci piace
- La cura della messa in scena, le interpretazioni magistrali e la regia delicata del giovane Balagov.
- Il finale catartico che chiude al meglio la storia.
- Perché nel raccontare il rapporto tra le due protagoniste il film indaga anche su di noi.
Cosa non va
- Il ritmo dilatato e sommesso e l’assenza di melodramma può far sembrare il film troppo autoriale.