Se qualcuno tenesse il conto di tutto il tempo che passiamo rintanandoci nei ricordi, si arriverebbe probabilmente ad un numero astronomico. Ricucendo le immagini sbiadite di un'epoca che non torna, è come se in qualche modo stessimo forzando la memoria stessa, brutalizzandola in funzione di un presente che non soddisfa, ma che anzi aumenta il divario tra ciò che era e ciò che è stato. Sotto forma di malinconia, resa limpida arte narrativa, Pupi Avati delinea quello che potrebbe essere uno dei suoi film più amari, confidenziali e sinceri, sferzato però da una leggerissima dolcezza, tanto da rendere udibile il battito concitato e poi rilassato delle immagini. Dolce, amaro e gustosamente ingenuo, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è cinema d'altra epoca - sembra di vedere un film degli anni Sessanta -, che per Avati coincide con la liturgia primaverile ed estiva che, sessant'anni fa, si sovrapponeva con la stagione dei matrimoni.
In un modo o nell'altro, Avati racconta molto di sé, del suo amore e della rincorsa verso quella che idealmente era la ragazza più bella di Bologna, poi sposata il 24 giugno del 1964. Perché la vicenda cinematografica si confonderà con il passato dell'autore, che per dichiarazione confonde in modo ammirevole la realtà con la finzione. Su questa strada, appare ideato La quattordicesima domenica del tempo ordinario, colmo di "cose" e colmo di "momenti", suddiviso in due fasi distinte che, tra ieri e oggi, si ricollegheranno in un gioco di dettagli, senza autocompiacimento ma, schiettamente, sottolineando i nostri fallimenti, in correlazione dei nostri sogni primordiali. Primordiali e traditi dalla rassicurazione a cui possiamo ambire, trasformando quel tempo straordinario in tempo - appunto - ordinario.
La quattordicesima domenica del tempo ordinario: la trama
Forme colmabili e forme incolmabili, utopie e canzoni dimenticate, la vita che cambia senza che cambi davvero nulla. Pupi Avati frulla cinema e musica in un film che esalta tanto la sceneggiatura quanto i riconoscibili personaggi. Personaggi che si estendono e si allungano, in bilico tra passato e presente, segnati dall'amicizia e dall'amore. Perché, se di storia universale si tratta (pur agganciandosi agli aspetti biografici del regista), eccoci a seguire i sogni di gloria di Marzio (Lodo Guenzi) e Samuele (Nick Russo). Sono gli anni Sessanta, quelli della musica pian piano più leggera, e delle prime sfilate di moda. Vorrebbero andare a Sanremo, ma la realtà lascia poco spazio ai voli pindarici.
Un'amicizia profonda, e poi l'amore ancora più profondo tra Marzio e Sandra (Camilla Ciraolo), meravigliosa e sfuggente ragazza di Bologna che, guarda caso, vorrebbe fare l'indossatrice, divincolandosi dagli archetipi femminili di un'epoca pura ma tradizionalista. La memoria narrativa, dunque, miscela passato e futuro, attraverso un montaggio incrociato, intanto che i colori mutano in base al tempo stesso: ritroveremo Marzia e Sandra (interpretati da Gabriele Lavia ed Edwige Fenech, in un'idea geniale di cast) alle prese con le rughe e i disastri, separati e poi ritrovati in nome di un destino spietato ma, in qualche modo, riparatore.
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Pupi Avati racconta la vita
Come detto, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è un film di affetti, di amori ammaccati e di possibilità sfuggenti. Cinema artigiano, quello di Avati, che dichiara palesemente il suo sistema cinema settato verso quello che potrebbe sembrare anacronistico (alcune scelte visive, nonché di montaggio, appartengono al remoto) ma che, preziosamente, risulta efficace nello sguardo del regista. Sembra un dettaglio minimo, tuttavia la caratteristica è ideale per la leggerezza e la delicatezza del cinema di Pupi Avati che, con coraggio, presuppone le parole alla tecnica, facendoci percepire tanto le emozioni quanto le palesi lacrime finte degli interpreti. Perché la cosa importante (e come dargli torto?) sarà poi concentrarsi sulla soggettività della storia, che mette in evidenza quanto tutti (nessuno escluso) siano in qualche modo vittime dei propri sogni e delle proprie scelte, tirando di conseguenza fuori una disarmante delusione scaturita dall'oppiacea nostalgia.
La stessa finissima nostalgia che, complici i tempi oscuri (o il tempo che si restringe?), tende ad alterare la percezione che si dovrebbe avere del futuro. Magicamente, tra i cambi di inquadratura, i primi piani stretti e i dialoghi ballerini, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è un film che ci tiene a non lasciare solo lo spettatore, senza che lo spettatore si ponga dei problemi verso quelle macro-storture della scena (Un esempio? I figuranti...) appartenenti, guarda caso, ad un cinema d'altri tempi, d'altri modi e d'altri concetti. Come Marzio e Sandra, raffigurazioni di un'Italia che stava cambiando, eccoci allora oltre i confini dei sogni infranti e delle fotografie dimenticate, scegliendo il cuore invece che la perfezione. Per questo, con un pizzico di presunzione, Pupi Avati continua a raccontare la vita. La sua, e anche un po' la nostra.
Conclusioni
Come scritto nella nostra recensione, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è il film più sincero di Pupi Avati. Una sincerità mista alla dolcezza, che finirà poi per soffermarsi sui sogni infranti e sulle secondo possibilità. Nonostante diverse ingenuità, un film a cui non si può voler bene.
Perché ci piace
- Il finale.
- La scelta di casting: Edwige Fenech è perfetta.
- La dolcezza, a tratti amarissima.
Cosa non va
- Alcune scelte visive, e di montaggio.
- I figuranti...