Stiamo forse cercando di lasciar libero un colpevole, non so... nessuno può saperlo. C'è in noi un ragionevole dubbio, e ciò è d'importanza capitale nel nostro sistema: nessuna giuria può condannare un uomo se non è più che certa.
Non era certo un'impresa facile quella intrapresa da Sidney Lumet quando Henry Fonda gli affidò la regia di un progetto da lui stesso prodotto, La parola ai giurati. All'epoca trentaduenne, e fattosi conoscere negli anni Cinquanta per il suo lavoro in televisione, Lumet aveva di fronte ostacoli non da poco: non tanto per il budget ridotto o per il calendario serrato per le riprese, quanto per le caratteristiche intrinseche del testo di Reginald Rose, già portato in TV nel 1954.
A prima vista, infatti, La parola ai giurati sarebbe potuto sembrare un copione più adatto al palcoscenico che non al grande schermo: per l'unità di luogo (la stanza in cui sono chiusi i dodici membri di una giuria), per il racconto in "tempo reale" e per un meccanismo narrativo basato esclusivamente sui dialoghi, senza neppure l'ausilio dei canonici flashback. Un dramma processuale sviluppato tutto al di fuori del tribunale (con l'eccezione del brevissimo prologo), e pertanto un unicum nel proprio genere, soprattutto all'epoca. Eppure, nelle sapienti mani di Lumet, la sfida si rivelò vinta su tutti i fronti: distribuito nelle sale americane il 13 aprile 1957, La parola ai giurati fu accolto con entusiasmo dalla critica, a giugno conquistò l'Orso d'Oro al Festival di Berlino e alcuni mesi più tardi si guadagnò tre nomination agli Oscar per miglior film, regia e sceneggiatura.
Nel corso del tempo, la fama del sensazionale esordio di Sidney Lumet è cresciuta ulteriormente: nel 2007 è stato inserito dall'American Film Institute nella classifica dei cento capolavori del cinema a stelle e strisce e nel 2008 al secondo posto nella classifica dei migliori drammi giudiziari (dietro soltanto a Il buio oltre la siepe); nel 1997 William Friedkin ne ha diretto un remake per la televisione e nel 2007 Nikita Mikhalkov ne ha tratto una sorta di rivisitazione con 12 (candidato all'Oscar come miglior film straniero). Ma come è possibile che, a distanza di sessant'anni dalla sua uscita, la pellicola di Lumet rimanga non solo un modello esemplare di scrittura e di messa in scena, ma anche una 'lezione' etica di sorprendente risonanza?
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Quel (rovente) pomeriggio di un giorno da cani
Lo schema alla base de La parola ai giurati è tanto semplice quanto incisivo: dodici uomini, che nel testo di Rose non hanno neppure un nome (vengono identificati attraverso un numero), sono chiamati a elaborare un verdetto al termine di un processo per omicidio. L'imputato, accusato di aver pugnalato a morte il padre, è un ragazzo diciottenne dei bassifondi di New York, e per di più appartenente a una minoranza etnica non specificata (Lumet gli dedica un unico, fugace primo piano); le testimonianze in suo sfavore sembrano schiaccianti, così come le circostanze del delitto. Ma al momento del voto preliminare, al principio di una seduta che si preannuncia molto rapida, a sorpresa qualcuno si esprime per l'innocenza dell'imputato: è il giurato numero otto, un uomo pacato e riflessivo a cui presta il volto il grande Henry Fonda.
È il calcio d'inizio di una 'partita' che si rivelerà sempre più tesa e appassionante: per i novanta minuti successivi, infatti, il giurato numero otto costringerà i suoi compagni a riprendere in esame tutti gli elementi del processo in questione, ricordando loro l'imprescindibile valore del "ragionevole dubbio" e incrinando un verdetto che pareva già deciso. E in un torrido pomeriggio newyorkese, mentre il savoir-faire cede il posto al nervosismo crescente e il sudore si fa via via più copioso sulle fronti dei dodici uomini, si decidono le sorti della vita di un ragazzo che potrebbe o meno essere un parricida. Sidney Lumet e il suo operatore Boris Kaufman calano questa dozzina di comprimari in un'atmosfera quasi claustrofobica, fra primi piani sempre più stretti, e trasformano l'angusto spazio filmico nell'arena di uno scontro al contempo giuridico, morale e psicologico.
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Dodici uomini arrabbiati
Tutt'altro che statico o verboso, La parola ai giurati è un'opera che fa della coesione narrativa e dell'unità spazio-temporale formidabili punti di forza, elevando al massimo grado le virtù della sceneggiatura di Reginald Rose e di un magnifico gruppo di attori. Già negli anni a venire, del resto, Sidney Lumet avrebbe rivelato una predilezione nel portare sullo schermo testi di matrice teatrale: dalla sua opera seconda, Fascino del palcoscenico (ancora con Henry Fonda), passando per giganti della drammaturgia coeva quali Tennessee Williams (Pelle di serpente, 1960), Arthur Miller (Uno sguardo dal ponte, 1962), Eugene O'Neill (Il lungo viaggio verso la notte, 1962) e, più tardi, Peter Shaffer (Equus, 1977). E ne La parola ai giurati Lumet fornisce una rappresentazione credibile e ben definita di ciascuno dei dodici co-protagonisti, sfruttando ogni dettaglio a propria disposizione e sottolineando le frizioni, i contrasti, fino alle vere e proprie esplosioni d'ira quando, dal piano puramente giuridico, si scivola su quello personale.
I "dodici uomini arrabbiati" del titolo originale (12 Angry Men) diventano così lo specchio della middle class americana (ma non solo), mentre il loro agone verbale si propone come un sostanziale paradigma di quello che sarà, da lì in poi, il miglior cinema di Sidney Lumet: un "cinema di parola", ma non per questo disposto a rinunciare alle specificità del linguaggio filmico (tutt'altro), in cui i dialoghi sono adoperati come armi affilatissime e le fragilità umane sono portate a collidere con un sistema etico decisamente complesso. Un cinema che, su questi assiomi, arriverà ad annoverare almeno altri due capolavori senza tempo, Quel pomeriggio di un giorno da cani del 1975 e Quinto potere del 1976, e un ennesimo, superbo dramma giudiziario, Il verdetto del 1982.
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"Io credo solo che meriti qualche parola, nient'altro..."
Ma La parola ai giurati - e in questo risiede uno dei massimi motivi della sua grandezza - non si limita a fornirci un affresco della mentalità piccolo-borghese nell'America degli anni Cinquanta: rivista a sei decenni di distanza, l'opera prima di Sidney Lumet conserva infatti un impressionante senso di urgenza e di 'attualità'. Innanzitutto perché nella figura del giurato di Henry Fonda, che si appella agli altri membri della giuria rammentando la necessità di concedere all'imputato un po' del loro tempo e "qualche parola", si ravvisa un insegnamento tutt'oggi fondamentale: il ruolo irrinunciabile della ragione, e quindi della parola (il lógos dell'antica filosofia greca) intesa come veicolo di un pensiero critico, di una riflessione che non si fermi alla superficie delle cose, ma riesca a produrre uno sguardo più profondo e analitico sulla realtà. Lo sguardo limpido del giurato numero otto, contrapposto a quelli offuscati degli altri giurati (e forse non è un caso che la "chiave del mistero" risieda proprio in un paio d'occhiali).
In questa prospettiva, La parola ai giurati costituisce un'apologia del razionalismo come la risposta più valida contro ogni forma di pregiudizio e di frenesia forcaiola. Quando il principale sostenitore di un verdetto di colpevolezza, il giurato numero tre (un magistrale Lee J. Cobb), arringa gli altri esclamando "Fate di tutto perché ci sfugga dalle mani!", Henry Fonda gli domanda a bruciapelo: "È lei il suo carnefice? Attaccherebbe volentieri la corrente?". "Per quello lì ci può scommettere!", replica il numero tre, in preda a una furia giustizialista a cui il suo avversario contrappone un sentimento di pietà che prescinde dai concetti di innocenza e di colpevolezza: "Mi fa compassione: dev'essere terribile attaccare la corrente. Da quando è entrato in questa stanza lei si è comportato come se si fosse eletto vendicatore pubblico. Vuol vedere morire quel ragazzo perché lo desidera personalmente, non basandosi sui fatti. Lei è un sadico".
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"Sono fatti così per natura... sono bestie!"
Nei diverbi fra i membri della giuria si delineano così due diversi approcci alla realtà e alle sue contraddizioni: quello del numero otto e degli altri uomini disposti a confrontarsi con il dubbio, determinati, nell'atto del giudizio, a mantenere saldo il proprio equilibrio etico, e quello di chi parla (e agisce) in base agli istinti più immediati, alla frustrazione, alla rabbia e, nei casi peggiori, ai pregiudizi. Come il giurato numero tre, per il quale l'imputato merita dal primo istante di finire sulla sedia elettrica, al di là di ogni motivazione apportata in sua difesa; o il giurato numero dieci (Ed Begley), la cui condanna si estende, tramite un generico pronome they, a un'intera minoranza 'sgradita': "Quella gente mente istintivamente! Insomma, non dovrei neanche dirvelo... non sanno cos'è la verità. E credete a me, non hanno neanche bisogno di un vero movente per uccidere. Nossignore: si ubriacano! Sono degli ubriaconi! Tutti quanti! E lo sapete! E bang! Qualcuno è a terra accoltellato. Nessuno vuole criticarli, in fondo sono fatti così per natura, non so se mi spiego... sono bestie!".
È proprio quel they, quel passaggio dal caso specifico a un'intera categoria umana, il tassello più inquietante del film, nonché quello che riecheggia in maniera più sinistra perfino sessant'anni dopo. Perché il discorso carico di diffidenza, di paura e di odio del giurato numero dieci è pressoché identico a quelli pronunciati quotidianamente da politici e giornalisti che sfruttano il timore del diverso e dello straniero per alimentare la xenofobia e le tensioni sociali; è identico alle conversazioni e ai post che grondano razzismo in funzione di un egoismo meschino e di un'ignoranza incapace di una vera lucidità; è identico agli slogan ignobili di chi invoca indiscriminatamente espulsioni, ruspe, "A casa loro" e forme di 'giustizia' sommaria contro i capri espiatori di turno, senza farsi sfiorare dall'ombra di un dubbio o da un barlume di empatia. Per questo La parola ai giurati è un film indispensabile, oggi più che mai: perché ci mette di fronte alle nostre responsabilità morali (inclusa quella di indignarci contro i "giurati numero dieci" del nostro presente) e ci ricorda, con perentoria fermezza, il dovere di ciascuno di noi di non abdicare in alcun caso all'uso della ragione. Accompagnandola, se possibile, anche all'uso del cuore.