Sarà che siamo reduci dall'invasione di cinema non proprio indimenticabile del periodo festivo, ma l'uscita in sala di un'opera come La notte dei 12 anni ci viene da celebrarla come una specie di evento miracoloso: il film di Álvaro Brechner, già selezionato nella rassegna Orizzonti all'ultima Mostra del cinema di Venezia, che racconta la storia drammaticamente vera di tre ex Tupamaros imprigionati dal regime militare all'inizio degli anni '70 - tra loro l'ex presidente del paese, Pepe Mujica - è stato applaudito in tutto il mondo e ha scatenato reazioni emotive molto forti soprattutto in Uruguay, in Argentina e nel Brasile appena consegnato a Bolsonaro.
È un film emozionante, che celebra personaggi splendidi, il loro coraggio e la loro resistenza in circostanze insostenibili, ma soprattutto La notte dei 12 anni è un bel film, rigoroso e ispirato nella scrittura e nella regia, meticoloso nell'aderire ai fatti e scevro di retorica, interpretato da tre attori eccellenti e generosi come Antonio De La Torre, Alfonso Tort e Chino Darín. All'origine di tutto c'è l'impegno profuso nel progetto da Álvaro Brechner che, come potere leggere nella nostra recensione di La notte dei 12 anni, ha dedicato anni alla ricerca sui fatti e alla scrittura della sceneggiatura, incontrando molte volte sia Mujica sia i suoi due compañeros, il politico e giornalista Eleuterio Fernández Huidobro, scomparso nel 2016, e lo scrittore, poeta e drammaturgo Mauricio Rosencof.
Leggi anche: Venezia 75, le preferenze della redazione di Movieplayer.it
Il segreto della sopravvivenza
Ha incontrato spesso Mujica, Rosencof e Huidobro durante la ricerca per lo script?
Sì, ho fatto ricerche per anni, e ho incontrato anche altri prigionieri Tupamaros e diversi militari, ma anche degli scienziati, dei neurologi. Perché il film ha almeno due livelli, uno è quello del racconto storico, a cui ho cercato di essere più fedele possibile, e poi c'è quello forse per me più importante del dibattito esistenziale: mi interessava indagare come è possibile restare umani, sani di mente, in circostanze impossibili come quelle inflitte a questi prigionieri ostaggi del regime. Una volta ero con tutti e tre nella sala presidenziale a Montevideo, e a un tratto Mujica disse: "A volte mi sveglio la mattina e rimpiango la mia cella" Sbalordito, gli chiesi come fosse possibile rimpiangere la prigionia, l'isolamento, e lui mi rispose: "Non ho più avuto tanto tempo a disposizione per essere me stesso. Non sarei la persona che sono oggi se non avessi avuto tutto quel tempo per essere me stesso." In un certo senso parliamo di avere un accesso perpetuo alla propria interiorità e all'immaginazione, entrare dentro sé stelli e ritrovare dignità e umanità: per questo il film non racconta solo un'esperienza di sopravvivenza, ma anche un percorso interiore.
Il film è uscito in Uruguay?
Sì, è uscito in Uruguay, in Argentina, in Brasile (nel periodo elettorale) e infine in Messico, è stato apprezzato dalla critica ed è stato scelto per rappresentare l'Uruguay nella selezione per l'Oscar al miglior film straniero e ai premi Goya. Per la gente del mio paese non è facile confrontarsi con questa vicenda, è recente, è ancora troppo vicina, e anche il mio film ha dei limiti, non può saldare i conti con la storia. Se avessi voluto fare un film sulla storia della dittatura avrei dovuto raccontare tre milioni di storie, una per ogni abitante dell'Uruguay. Mi arrivano ogni giorno video girati alle proiezioni, in cui le persone reagiscono al finale del film e si sfogano sulla situazione che stiamo vivendo oggi; ovviamente c'è anche chi non lo apprezza, ma per molto il film è una catarsi, tocca il tema ultimo del bisogno di libertà, e questo un po' mi preoccupa perché la dice lunga sui tempi che stiamo vivendo.
Leggi anche: Roma, il Messico di Alfonso Cuarón spiegato al resto del mondo
La strana pringionia di Pepe, Ñato e Ruso
Nel suo film, impostato in maniera così intelligente e originale, al punto di evitare tutti gli stereotipi della scrittura di un dramma, ci sono diversi momenti farseschi, quasi ridicoli...
Li ho incontrati tante volte, anche venti volte individualmente, spesso tutti e tre insieme, e ridevano tantissimo. Mi raccontavano cose atroci, e non la finivano di ridere; credo che sia un meccanismo di difesa, un'altra tecnica di sopravvivenza. Durante la prigionia non erano trattati come esseri umani ma come animali, i carcerieri dovevano preoccuparsi di nutrirli ma poi si dimenticavano di loro; anche perché dopo mesi, anni in quelle condizioni avevano perso il senso del tempo, avevano perso quasi la capacità di parlare, ed era "facile" considerarli alla stregua di animali. Mi raccontavano di aver sviluppato una specie di super-udito che gli permetteva di sapere tutto quello che succedeva intorno a loro, di sapere tutto dei soldati e degli ufficiali che li avevano in custodia, li aiutava a passare il tempo ed era per loro una sorta di rivalsa. Gli aneddoti divertenti furono molti, e ad esempio la scena in cui Huidobro non riesce a defecare perché nessuno vuole prendersi la responsabilità di togliergli le manette per permettergli di accovacciarsi è successa più o meno in quei termini. Anche l'assurdo è un modo per difendersi dall'autoritarismo.
Gli attori sono tutti e tre straordinari. Come li ha scelti?
Con Alfonso Tort avevo già lavorato, Antonio de la Torre lo conoscevo perché è un attore con un curriculum incredibile, e Chino Darín è più giovane ma è già una sicurezza. Abbiamo improvvisato non poco durante le riprese, nonosotante la sceneggiatura fosse di ferro, molto dettagliata; ma loro hanno vissuto l'esperienza sulla propria pelle - il vero Rosencof era preoccupato per Darín, gli ha detto "io quindici chili li ho persi in dodici anni, tu in tre mesi!"- e ho voluto lasciar loro molto spazio, giravamo senza sapere cosa sarebbe successo immediatamente dopo: erano spossati fisicamente ma disposti ad avvicinarsi, a sperimentare la poesia. C'era una scena, la numero 42, per la quale sul copione c'era solo una frase: "Mujica sente le voci". L'abbiamo girata con de la Torre in 38 minuti durante i quali è successo di tutto. Il cinema non può mai riprodurre esattamente la realtà, ma ha un grande potere.
C'è una sequenza, nella parte finale del film, accompagnata da una versione di The Sound of Silence che ci ha lasciato tutti con la pelle d'oca. Come è arrivata la canzone nel film?
Ero in un bar a leggere dei documenti, a lavorare alla sceneggiatura, quando ad un tratto mettono The Sound of Silence e io mi ritrovo a canticchiarla. D'un tratto mi resi conto del rapporto delle liriche con quello che stavo scrivendo: parla della ricerca della luce nell'oscurità. "People writing songs that voices never share/ And no one dared disturb the sound of silence". Così ho chiesto a Sílvia Pérez Cruz, una grande cantante spagnola che ha anche una piccola parte nel film, di cantarla così, come una battaglia contro la deumanizzazione, alla ricerca di una fiamma a cui aggrapparsi nell'oscurità. Il risultato lo avete visto.
Leggi anche: Iñárritu, Cuarón e gli altri: il trionfo dei sudamericani al cinema