Il filone che è stato definito dagli esperti come thriller all'italiana, nasce praticamente da qui. E' vero che già in precedenza, con La ragazza che sapeva troppo del 1962, Mario Bava si era accostato al giallo, ma il film non scardinava più di tanto la semplice struttura del poliziesco. Con Sei donne per l'assassino, il maestro italiano osa di più e recupera gli elementi più cruenti che avevano reso pellicole come La maschera del demonio, La frusta e il corpo (causa per Bava addirittura di seri problemi giudiziari) e I tre volti della paura dei veri e propri cult. L'introduzione della violenza più sanguinaria e fisica, oltre a costituire nella storia del cinema la tipizzazione definitiva dello slasher movie (estremizzando all'eccesso le "conquiste" dello Psycho hitchcockiano e de L'occhio che uccide di Michael Powell), spalanca le porte al nuovo cinema di genere italiano (il Dario Argento degli esordi, ma anche quello di Profondo Rosso per l'omicidio nella vasca da bagno (diretta derivazione, tra l'altro, di I diabolici di Henri-Georges Clouzot, classicissimo colpevolmente dimenticato) ed internazionale (il killer con impermeabile nero, guanti e cappello presente in tanto cinema successivo come, giusto a titolo d'esempio, in Vestito per uccidere di Brian De Palma). Appurato l'enorme lascito del film in esame (e non certo negato dagli addetti ai lavori), non ci si deve certo limitare ad inserire Sei donne per l'assassino tra gli antenati del cinema di genere che, inevitabilmente, diventano superati con il trascorrere del tempo. Il film del regista sanremese, al pari di tanti classici, regge assolutamente il confronto con tante prove successive e magari di maggior successo. Sei donne per l'assassino è un film che presenta idee formali, tecniche e, in misura minore, narrative ben lungi dall'essere anacronistiche. Forse il confronto con alcuni dei thriller di ultima generazione non regge più di tanto. Sono tanti, però, i momenti del film che i veri appassionati non dovrebbero dimenticare.
Innanzitutto è curioso il parallelo creato da Bava tra la spersonalizzazione dei manichini e gli atteggiamenti spersonalizzanti dei protagonisti in carne ed ossa. Gli esseri umani che popolano Sei donne per l'assassino sono tutti appartenenti all'alta borghesia (gli interni sono sempre riccamente arredati, quasi come in un film di Ernst Lubitsch, ma in cui, stranamente, si respira un'aria viziata e di desolazione). Ci sono donne affascinanti e uomini di grido che, pur dotati della bellezza tutta esteriore, sono "tarlati" dalla vigliaccheria, dal marcio e dalla bruttezza interiore (notate la serie di primi piani allarmati che seguono alla notizia del ritrovamento del compromettente diario di Isabella). E' gente meschina che, una volta al cospetto della morte di qualcuno, non sa come comportarsi e che, nel conseguente tentativo di occultare i fatti, costruisce alibi inutili (quello "patteggiato" dal marchese Morelli e l'antiquario Franco Scalo) o nasconde incomprensibilmente i cadaveri (Greta che trova nel bagagliaio dell'auto il corpo esanime di Peggy e lo porta, senza giustificazione alcuna, nella sua abitazione): sono, insomma, persone già colpevoli in partenza. L'assassino con il volto interamente coperto, e privo quindi di caratteri distintivi, è invece una sorta di manichino impazzito (e come tale illuminato dalla luce intermittente all'interno della casa di Scalo) e che non presenta un'identità rivelabile, simile in questo ai protagonisti privi di lineamenti che dimorano in tanti quadri di De Chirico (ma c'è anche l'alone de L'uomo invisibile di James Whale). L'annullamento delle fattezze del volto è un contrassegno carico di significati: infatti, Peggy dopo aver tolto la maschera all'assassino, lo riconosce e lei fa un'orrenda fine con la faccia spiaccicata contro la stufa. Bava sembra mostrare così un mondo caduto in disgrazia (quello della moda in questo caso, come in quello del deleterio Le foto di Gioia girato da Lamberto Bava, figlio del regista sanremese, e in quello dissimile, ma molto più polemico, di Prêt-à-Porter di Robert Altman), dove l'unica maniera per conservare il proprio dominio è quella basata sulla violenza, una violenza cieca e magari metaforica, ma senza più un volto umano (come volevasi dimostrare).
Oltre il dato simbolico, restano da ricordare anche i soliti grandi accorgimenti di Bava nell'aspetto figurativo. La macchina da presa è sempre collocata in luoghi peregrini, ribadendo, una volta per tutte, l'assoluto dominio dello spazio scenico che è tipico del regista italiano (da antologia è la sequenza collocata verso la conclusione in cui, con una soggettiva della contessa Cristina, la macchina da presa guida l'occhio dello spettatore tra i manichini dell'atelier vuoto, fino a scoprire Massimo Morlacchi seduto nella stanza adiacente intento a trafugare i gioielli dalla cassaforte).
I colori sono accesi, carichi ed eccessivi: sembrano macchie pittoriche che "assorbono" l'illuminazione del set, con una intuizione che farà la fortuna dei già citati Argento e De Palma (ma l'assassinio di Nicole con il guanto chiodato di un'antica armatura non deve aver lasciato indifferente Wes Craven per il Freddy Krueger di Nightmare - Dal profondo della notte). La cornetta rossa del telefono che penzola nel vuoto (facendo il paio con l'insegna dell'inizio staccata dal vento) è infine un pendolo impazzito che, quasi come una dichiarazione programmatica, decreta circolarmente la fine del film ma, insieme, anche il vero inizio (dimenticato da molti) di un nuovo filone cinematografico. E' infatti grazie a Sei donne per l'assassino e a Mario Bava che l'Italia da vedere, dopo i fasti del Neorealismo e della commedia, non è stata più solo quella dei falsi d'autore o del trash!