Quando uno scrittore scrive parla sempre di sé. Fa parte del gioco, concedersi ed essere generosi, far entrare il lettore all'interno della propria mente per poi prestargli il proprio punto di vista e attraverso di esso guardare alla realtà. Anche quando si adottano alter ego o si raccontano storie non esplicitamente riferibili.
Mattia Torre lo sapeva bene quanto fosse importante la generosità. La maggior parte delle cose che ha scritto (dal teatro al cinema, passando per la televisione e letteratura) muovevano i loro primi passi da una narrazione di sé mai nascosta, anzi, dichiarata sin dalla prima riga. Pensate a Figli, la sua ultima opera, tratta dall'omonimo monologo. Come se la scrittura, anzi, la parola fosse un'irrinunciabile forma di autoanalisi per l'autore romano, prima ancora che di racconto per il lettore. Una necessità talmente grande che non è cambiata neanche nel momento in cui ha scritto La linea verticale.
La serie tv, disponibile in streaming su Netflix, adatta il romanzo autobiografico in cui Torre racconta il momento più buio della sua vita con una genuinità disarmante, mettendosi a nudo grazie al coraggio di non cadere mai nel pietismo. Motivo per cui eleva la sua vicenda a racconto esistenziale, parlando di vita e morte, ma anche parlando con la sua solita brillante arguzia dell'Italia e delle nostre piccole miserie. La priorità rimane sempre la sincerità del suo punto di vista, perché è la matrice che gli ha permesso e gli permetterà di essere ricordato per chi era realmente.
Il racconto più umano di Mattia Torre
Il romanzo autobiografico di Mattia Torre, La linea verticale (edito da Baldini + Castoldi) esce nel 2017 e si basa sull'esperienza dell'autore all'ospedale Regina Elena dopo la diagnosi di un tumore, la stessa patologia che causerà la sua scomparsa appena due anni dopo. Il libro è un concentrato di umanità e di irresistibile ironia che apre le finestre alla dimensione esistenziale del malato oncologico per adoperarla come sguardo con cui raccontare il mondo - ospedale, metafora della nostra società in tutti i suoi aspetti.
L'abilità dell'autore romano non sta infatti solo nella sua enorme capacità di raccontarsi senza prendersi sul serio, ma di usarsi come espediente per narrare tutto ciò che lo circonda con la spontaneità di mostrare come questo "altro" lo cambi ogni volta, portandolo spesso a crisi profonde, come accade sia nei suoi monologhi brevi che nei suoi racconti più lunghi. Il romanzo è un successo, e poco dopo si decide di adattarlo in una serie televisiva.
Un enorme atto di coraggio, dato che La Linea verticale nel suo formato televisivo è ancora più efficace nel raccontare il viaggio interiore che compie Luigi nella sua stanza del reparto oncologico durante la trafila per l'intervento. Un viaggio che mette a nudo il rapporto di Torre con la sua malattia, facendo uscire paure terribili, dubbi infantili e speranze non sempre ben riposte. La genuinità è ciò che colpisce dell'opera, più di tutto il resto. Il grado di immedesimazione che si raggiunge con il protagonista è talmente alto che possiamo potenzialmente trovare qualcosa di noi nella storia, anche solo per le logiche dell'ospedale o per le caratterizzazioni degli avventori che ne riempiono le corsie. Una metamorfosi di quell'"Italia da operetta" che l'autore ha sempre raccontato.
"Devi vivere in verticale"
La parte di Mattia - Luigi è affidata a Valerio Mastandrea, "l'uomo con i piedi per terra" dell'autore e quindi perfetto interprete di un protagonista che per tutto il tempo deve cercare di ottemperare ad un preciso comandamento: "Devi vivere in verticale, orizzontale sei morto... verticale sei vivo". Verticale, ma sdraiato; ossimoro intorno al quale si muove tutto il punto di vista. Un paziente sdraiato, ma verticale, intorno al quale orbitano ansie e pensieri, gli altri pazienti, i medici e l'amore della sua famiglia.
L'ecosistema dell'ospedale, tra diagnosi improvvisate, preti senza fede, dottori infatuati dalla infermieri, malati con le allucinazioni e professoroni messianici, diviene man mano la trasposizione della dimensione emotiva del protagonista, un quarantenne a cui è stato diagnostico un tumore al rene, ma che ha dentro di sé una vitalità enorme. Una vitalità tale da immaginare, riflettere, osservare ed elaborare, seppur in mezzo ad angosce, timori e sofferenze. Un punto fermo intorno al quale prende forma una danza composta da volti sempre diversi.
La linea verticale è quindi quella di Mattia Torre, che si ostina a rimanere in posizione eretta, a concentrare gli sforzi su di sé e ad uscire in quel microcosmo esattamente come ci è entrato, con le sue gambe, "un passo alla volta". Il regalo più bello di un quarantenne normale eppure straordinario che, anche correndo il rischio di mostrarsi ingenuo, ci dona una storia priva ogni forma di melassa, raccontandoci il punto più delicato della sua vita con la cura di mantenere la barra dritta, tenendo fede sempre al suo modo di narrare, lasciandoci in eredità qualcosa di bellissimo. E straziante.