Quando uscì sugli schermi italiani l'incomparabile serie Boris, urlammo al miracolo: non eravamo abituati da anni a un prodotto nostrano per la televisione così acuto e gustoso, che raccontasse vizi e slanci dell'Italia in maniera tanto realistica e al contempo surreale. Ne eravamo deliziati: avevamo saputo prenderci in giro con arguzia, esorcizzando e denunciando un microcosmo lavorativo che sembrava il plastico dell'Italia tutta.
La Linea Verticale è la nuova serie in onda su Rai3, in prima serata dal 13 gennaio e interamente disponibile sulla piattaforma gratuita RaiPlay già dal 6, scritta e diretta da Mattia Torre, una delle vulcaniche menti dietro Boris; di questa conserva l'umorismo cattivo, molti irresistibili interpreti, e quelle pennellate surreali. Ma lo spunto è più serio, l'impianto narrativo è di un medical drama (per ironia della sorte, come quello della serie fittizia in Boris, Gli occhi del cuore), e lo sguardo dietro la macchina da presa non è solo di scherno, ma anche di profonda gratitudine.
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Un momento prima sei al lavoro, e un momento dopo...
Primi minuti della prima delle otto puntate, da venticinque minuti l'una: Luigi (uno sferzante, annichilito e sempre in parte Valerio Mastandrea) fa le sue considerazioni dopo la scoperta di un cancro al rene. Immagina il suo funerale, che dovrà essere molto doloroso; a questo scopo, è escluso il rito cattolico, troppo criptico e distraente. Si racconteranno invece aneddoti della sua vita che uniscano "lo strazio a quella nota comica", e che faranno venire voglia a tutti gli astanti di farla finita. Già nei primi minuti s'intuisce la cifra della serie: tra il commovente e l'ironico, quell'umore vibrante e verissimo di chi ci è passato in prima persona, come Mattia Torre, conservando quella lucida tenerezza con cui ha potuto scriverne un libro e poi una serie, che inizialmente sarebbe dovuta essere uno spettacolo teatrale.
La voice-over di Luigi commenta continuamente la routine in ospedale, e dà vita a squarci e siparietti immaginati dal protagonista per evadere dal presente con filosofia e cinismo. È così che Luigi ci spiega come la rabbia anche lì dentro si sfoghi verticalmente, dal medico allo specializzando all'infermiere, e che sia da cercare in questa linea verticale il motivo per cui l'addetto alle pulizie è la persona più frustrata e scortese dell'ospedale. Ed è ancora con questo espediente che Luigi spiega come tutti si sfoghino sul pulsante dell'ascensore, premendolo nevroticamente o addirittura saltandoci sopra come farebbe un ninja. Le riprese ieratiche dal basso o dall'alto, e quelle inquadrature che quasi ricordano il "Cristo morto" di Mantegna, aggiungono un'aura di sacralità all'ironia, perché negli ospedali tutti i pazienti sono uguali, e non c'è distinzione per reddito o ceto, ma ognuno sviluppa una "intima e profonda dipendenza dai medici", esattamente come si fa con una divinità. Figure quasi ultraterrene e spesso presenti nei sogni, i medici che gravitano intorno a Luigi hanno un qualcosa in più rispetto agli altri esseri umani: possiedono le risposte. Peccato che, da parte dei medici meno ispirati e molto più sbrigativi del dio-chirurgo (Elia Schilton) che opera Luigi con affetto e dedizione, la diagnosi medica sia sempre la stessa: "è colpa dei vasi". Battuta geniale e sconsolata, che torna nelle puntate come un refrain.
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Chi ci crede
Luigi non è un paziente abbandonato a sé stesso, ma ha un'amorevole moglie incinta (Greta Scarano) e una figlia di sette anni che gli compare di continuo, insieme alla compagna, in quei ricordi cui ci si aggrappa per sopravvivere. La moglie di Luigi va sempre a trovarlo, lo incoraggia parlando di resilienza, ma a un occhio più attento mostra un'espressione stanca e la radice dei capelli imbiancata, come quando si hanno pensieri più seri del rifarsi la tinta. E poi c'è la caposala (Alvia Reale), che ha un modo di fare ruvido ma si rivela comprensiva, e ama evadere con la mente dai corridoi ospedalieri grazie al melenso pop italiano.
C'è l'impareggiabile compagno di stanza Amed (Babak Karimi), considerato da tutti un migrante nonostante parli un italiano da filosofo, alternando momenti di compassione a deliri mistici e minacce di dieta vegana agli altri pazienti. C'è "il competente delirante" (Giorgio Tirabassi), che non si comporta da malato ma da dottore, elargendo diagnosi a tutti con bonaria petulanza e in fondo rimpiangendo gli aromi della sua trattoria. C'è Peppe (Gianfelice Imparato), che affronta la malattia col tipico ottimismo del "paziente recidivo", e si ricorda di tutti ma non viene riconosciuto da nessuno. C'è l'infermiera Giusy (Cristina Pellegrino), che minaccia in romanesco i pazienti ma in realtà li sostiene in tutte le loro assillanti pretese. E c'è il dottor Barbieri (Ninni Bruschetta), che la corteggia insistentemente e, coi pazienti, mescola diagnosi di un secondo a ottimi consigli spassionati, celando un odio viscerale nei confronti degli oncologi che, a differenza dei chirurghi, non combattono sul campo. E tutti i personaggi sono caratterizzati perfettamente, dai medici che minimizzano ai medici catastrofici, dal chirurgo primario fino alla paffuta infermiera filippina, che viene chiamata "Filippa" e lo spiega col fatto che gli italiani sono un popolo "semplicistico".
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Chi ci crede un po' meno
E c'è poi chi riserva al proprio mestiere molta meno dedizione: dal dottor Policari (Antonio Catania), che preferisce la musica alla medicina e si distrae ascoltando l'evocativa suoneria del suo cellulare, al dottor Rapisarda (Federico Pacifici), che si defila quando intravede domande, lamentele e rogne di varia natura, e che secondo le congetture di Luigi ha perfezionato un passetto apposito per voltare i tacchi senza dare troppo nell'occhio. E non solo i medici, ma anche i preti sembrano poco convinti della propria vocazione: Don Costa (Paolo Calabresi) dopo la scoperta della malattia non dispensa più consigli fumosi tra i letti dell'ospedale, ma si mostra impaurito e vulnerabile, e confessa che anche lui, come Ratzinger, pensa: "Boh!". In quella linea verticale che è la vita, tutti vacillano, con maggiore o minore empatia, con maggiore o minore egoismo; ma tutti sognano il mare, o quantomeno di raggiungere "a piccoli passi" il bar, se i valori dell'emoglobina lo consentono, facendo diventare un traguardo ordinare cinque caffè per gli infermieri che possono berlo.
Questo medical nostrano, un po' comico e un po' drammatico, racchiude un amore per la vita e per il ritorno alla vita che può consolare chiunque, malati e non, e che a un certo punto prende in prestito i meravigliosi versi di Borges, estendendo la celebrazione per la vita a quella per i medici, per gli infermieri, e per chiunque nel proprio mestiere profonda amore e impegno. Perché, oltre a essere un popolo semplicistico, l'Italia è anche composta da persone che fanno guarire gli altri, con tutti gli strumenti che hanno a disposizione.
Movieplayer.it
4.5/5