Due tra le più incisive e meglio riuscite pellicole americane di ambiente legale, caratterizzate da un piglio registico diverso nonché realizzate in epoche diverse, sono firmate dallo stesso regista: Sidney Lumet. La parola ai giurati (1957) è basato sul dramma Twelve Angry Men di Reginald Rose, mentre Il verdetto (1982) è tratto dall'omonimo romanzo di Barry Reed; non soggetti originali, quindi, ma profondamente consoni alla poetica di Lumet, che ha sempre scelto di trattare, seppur non trascurando l'intrattenimento, tematiche delicate e controverse, andando spesso a toccare nervi scoperti della società americana: il sistema giudiziario è uno di questi. Il Lumet esordiente lo racconta - con una scelta singolarissima all'interno di genere che normalmente relega la giuria al ruolo di pubblico che assiste alle esibizioni di procuratori e difensori - dal punto di vista dei giurati; il Lumet anziano de Il verdetto sceglie invece la prospettiva di un avvocato ben diverso da Perry Mason e dai suoi iconici epigoni: Frank Galvin è un uomo non più giovane, ridotto a frequentare le veglie funebri di sconosciuti per racimolare casi, e con il vizio della bottiglia.
Lumet sovverte i cliché della fiction legale per raccontare storie trascinanti in cui la "giustizia", o meglio, il buon senso e l'umanità, finiscono per trionfare, stimolando allo stesso tempo una riflessione illuminante e durissima sul sistema giudiziario americano, sulle sue falle e le sue contraddizioni.
Nel caso de La parola ai giurati, un ragazzo di diciotto anni è accusato di omicidio. Il padre è stato accoltellato a morte, e il figlio, da sempre vittima degli abusi del genitore, è l'unico naturale sospetto. Ma oltre al sospetto c'è poco altro: è sufficiente un minimo di osservazione e di logica per rivelare che quelle che per l'accusa e per undici dei dodici giurati sono prove inconfutabili sono in realtà elementi indiziari, e che le testimonianze oculari che incastrano l'imputato sono tutt'altro che solide.
Ne Il verdetto, la famiglia di una giovane donna ridotta in coma irreversibile da un errore di procedura operatoria rischia di perdere il risarcimento perché il suo avvocato - a causa dell'influenza sul processo del potente istituto religioso che gestisce l'ospedale in cui è avvenuto l'incidente - è impossibilitato a presentare un caso solido.
Ambedue i processi si svolgono con decorso del tutto regolare, e non sembra possibile altro esito se non quello che vede il ragazzo mandato alla sedia elettrica e i colpevoli dello stato vegetativo di Deborah Ann Kaye sollevati da ogni responsabilità. Il sistema di cui l'America mena vanto sta permettendo che il pregiudizio in un caso e il potere economico nell'altro condizionino irreversibilmente la giustizia.
Eppure i casi si risolvono con sentenze anomale. L'incognita è ovviamente la giuria, la più democratica tra le istituzioni legali stelle e strisce; persone qualsiasi, digiune di diritto, chiamate, come spetta ogni cittadino americano, a svolgere il loro jury duty. Ne La parola ai giurati li conosciamo a fondo (anche se c'è da dire che nessuna giuria, neppure negli anni '50, sarebbe stata composta con così poco discernimento, senza includere nemmeno una donna o una persona di colore): sono uomini non sempre privi di senso civico, ma che inevitabilmente si lasciano influenzare da elementi extraprocessuali come l'estrazione sociale dell'imputato, o dalle loro storie personali, e che soprattutto sono in soggezione rispetto alle autorità giudiziarie: nell'ombra dei potenti, i giurati ne diventano strumento, tanto da essere incapaci di mettere in discussione quanto esposto dall'accusa fino a che il giurato numero 8 (Henry Fonda) non riesce a rivelarne la debolezza.
Ne Il verdetto, la giuria torna a fare apparentemente da spettatrice, salvo poi rivelare, nel finale, di non avere accettato l'effettivo risultato del processo; di essere una giuria "attiva e pensante", come quella del film del '57 era diventata grazie al personaggio di Fonda.
In sostanza, in entrambe le pellicole i giurati sovvertono l'esito del processo, non si comportano conformemente al sistema e così facendo impediscono che vengano compiute delle gravi ingiustizie.
Nella ricomposizione dell'epilogo positivo, permane il dubbio che Lumet ha abilmente e sottilmente sollevato: quanto spesso le giurie sono come queste e quanto spesso sono invece prevale l'atteggiamento degli undici giurati su quello del dodicesimo? Questo è il dilemma di un sistema che ha nella giuria un anello estremamente vulnerabile e strumentalizzabile, che rischia troppo spesso di legittimare un verdetto "preordinato" in fase di processo.