Lo si capisce subito: La legge di Lidia Poët, con rigorosa umlaut sulla 'E', a ricordare le sue radici piemontesi, è un'ottima serie. Non stupisce che dietro l'architettura produttiva ci sia Matteo Rovere con la sua factory Groenlandia, capace finalmente di portare la qualità seriale (italiana) anche su Netflix, dopo i successi di Skam Italia e di Tutto chiede salvezza di Francesco Bruni. Come a dire: anche noi abbiamo le nostre storie originali, e anche noi sappiamo fare bene quando ci viene messo a disposizione il giusto spazio. Ma, al netto dell'incredibile assetto scenografico, e posteriormente alla precisa ricostruzione dell'epoca - siamo nel 1883, a Torino -, lo show diretto da Matteo Rovere e Letizia Lamartire, e scritto da Guido Iuculano, Davide Orsini, Elisa Dondi, Daniela Gambaro e Paolo Piccirillo, rimarca in modo diretto uno dei concetti narrativi più attuali, e spesso fin troppo omologati: al centro della serie c'è una protagonista femminile che appare semplicemente per quello che è, oltrepassando la dibattuta lotta di genere.
Modernità e anima scapigliata: nessuna sovrastruttura, nessun orpello, nessuna sottolineatura, né accenti simbolici o frasi ammiccanti in nome della causa di genere, più adatte all'apparenza che alla sostanza. Nel nostro approfondimento, proviamo a spiegarvi quanto le sei puntate de La legge di Lidia Poët compongano il profilo umano di una donna incredibile senza però sovraccaricare i suoi significati, ma anzi lasciando spazio a quella naturalezza necessaria per farci credere a ciò che vediamo, e quindi edificandone una figura tanto rivoluzionaria quanto spassionatamente pop, e dunque comunicativa. Sembra banale, eppure i contorni del personaggio, dinamitardo nella sua figura, sono essenziali per risultare credibili, scansando di conseguenza i macigni del politicamente corretto, che spesso alterano in modo troppo marcato le pur nobili intenzioni di un'opera cinematografica o seriale. Certamente non è facile allontanarsi dai preconcetti e dalle solite didascalie, e per sfuggire ai format impostati ci vuole il giusto coraggio e la giusta capacità narrativa.
Lidia Poët come Perry Mason
Appunto, lo storytelling. Il racconto, romanzato al punto giusto proprio per essere il più coinvolgente possibile (il risultato non sarebbe stato lo stesso se si fosse seguita alla lettera la biografia della Poët) mischia toni e inflessioni restituendoci un contesto equilibrato in cui spicca la protagonista: una donna, prima avvocatessa d'Italia, e avanguardista nel pensiero femminile e nell'integrazione sociale, culturale, civile e politica (per capire meglio, leggete la nostra recensione).
Icona assoluta, però, destrutturata in funzione di una serie che mischia il crime, il noir e il procedurale (ogni episodio è semi-conclusivo, e si affronta un caso alla volta), avvicinando le battaglie di Lidia Poët, splendidamente interpretata da Matilda De Angelis - che si è detta ispirata dalle capacità e dagli ideali dell'avvocatessa - ad un pubblico il più possibile trasversale, di puro intrattenimento popolare. E, oggi più che mai, puntando a scavalcare i confini nazionali (prerogativa delle produzioni Groenlandia). Come se fosse una sorta di Perry Mason, la scaltra, risoluta e arruffata Lidia sorregge l'architrave principale senza però cedere all'ingombrante realtà storica - e dunque reale - con cui deve confrontarsi.
Fare, senza dire
La scrittura, vero plus, segue una leggerezza così audace che non serve ricordare i presupposti da cui nasce: Lidia Poët, in brevissimo, lottò per esercitare la professione a pieno titolo, in quanto le donne non potevano entrare nei pubblici uffici. Come vediamo nella serie Netflix, prima del 1919 (quando venne diramata le legge che aprì la professione alle donne) collaborò con suo fratello Giovanni Enrico, con il volto di Pier Luigi Pasino, difendendo i ceti più bassi. Una storia vera che, per magia dello storytelling, diventerà indispensabilmente falsa e dunque perfetta per essere svirgolata sotto forma di linguaggio seriale. Un esempio, dunque, è la presenza di Jacopo Barberis, con il volto di un altro grande attore under 35, Eduardo Scarpetta, presenza liberale, assistente involontario di Lidia e giornalista sagace che, nella Gazzetta Piemontese, scriveva quanto oggi "viviamo in un tempo di progresso". Ecco, un certo progresso è sintetizzato ne La legge di Lidia Poët: rappresentare la forza di una donna senza rimarcare di star a rappresentare la forza di una donna. Ci voleva tanto?