Recensione La guerra di Charlie Wilson (2007)

Tante idee e tanto talento, e una realizzazione sontuosa, per una pellicola che sfiora soltanto l'eccellenza, perché, se è vero che ad un tempo intrattiene e stimola la riflessione, pecca forse di eccessivo sarcasmo e di troppo poco cuore.

La guerra dei milioni

Siamo all'inizio degli anni '80, e Charles Wilson è un membro democratico del Congresso del secondo distretto del Texas e ama la bella vita, e soprattutto le belle ragazze. "Puoi insegnar loro a scrivere a macchina, ma non a farsi crescere le tette"; questa è la sua filosofia nel reclutare le proprie assistenti. Tra le sue numerose fiamme, però, c'è anche una donna di grande influenza, l'affascinante e straricca ex beauty queen Joanne Herring, che, oltre a intrattenersi con lui tra le lenzuola, pensa bene di manovrarlo per i propri fini politici e umanitari: Wilson è infatti stato incaricato recentemente di gestire la commissione per l'assistenza "sotterranea" ai miliziani afgani contro gli invasori sovietici - ma, per il momento, non ha fatto altro che raddoppiare un budget spaventosamente impari rispetto alle esigenze dei mujaheddin, alle prese con la tecnologia e la potenza delle truppe URSS.
Joanne - e Gust Avrakotos, probilmente l'agente segreto con meno tatto e abilità diplomatica della storia, ma con utilissime conoscenze - hanno piani più ambiziosi per Charlie, e lo affiancheranno nelle sue manovre per fare ottenere agli afgani oppressi finanziamenti adeguati e armi moderne (magari di provenienza russa!) che permettano loro di fronteggiare gli spietati e meglio equipaggiati nemici.

Nonostante la serietà del tema e il pathos di alcune sequenze con scene di battaglia o immagini di bambini mutilati, La guerra di Charlie Wilson non è decisamente un film che definiremmo drammatico. L'approccio dello sceneggiatore Aaron Sorkin e del regista Mike Nichols alla materia biografica e di cronaca (il film è basato sull'omonimo bestseller pubblicato dal reporter George Crile nel 2003, che narra le gesta del vero Charlie Wilson) è leggero, i toni quasi farseschi; la sceneggiatura è briosa e costellata di battute incisive, evocative e divertenti, e, considerando il fatto che è basata su fatti realmente accaduti, appare volutamente forzata, semplicistica e poco credibile. L'intento satirico è evidente persino nelle scene più "epiche": basti pensare alle sequenze in cui si celebra la vittoria afgana e l'ignominiosa ritirata dei sovietici, commentate da un sorprendente arrangiamento del segmento corale del Messiah handeliano "And He Shall Purify", che, ad avere una certa familiarità con il verso biblico ("And He shall purify the sons of Levi, that they may offer unto the Lord an offering in righteousness"), non può che suonare beffardo.
E apertamente beffardi sono anche i riferimenti all'attuale politica estera statunitense: pur essendo, in un certo senso, interventista, il film mette implacabilmente in luce l'ambiguità e la sciagurata miopia nei rapporti con l'Afghanistan in particolare e con i paesi mediorientali in generale, evidenziando con sottigliezza come con la politica anti-sovietica degli anni '80 si siano poste le basi per i conflitti e le tensioni che stiamo vivendo in questi anni.

A dare a questa farsa politica la credibilità e la profondità che la sceneggiatura non vuol darle, sono le interpretazioni: Tom Hanks, nei panni di Wilson, è splendidamente in parte, oltre a sfoderare un accento che ingannerebbe un texano di cinque generazioni; è sul suo viso che leggiamo il turbamento interiore e la crescita nella consapevolezza etica di un uomo che, considerato al tempo uno dei maggiori responsabili della "vittoria" della guerra fredda, è stato messo da parte, e frustrato nei suoi successivi tentativi di azione propositiva e costruttiva. Non è da meno Philip Seymour Hoffman, che, con il ruolo dell'arguto, cinico e screanzato Avrakotos ha centrato la sua seconda nomination all'Oscar dopo la vittoria per Truman Capote - A sangue freddo - mentre non tiene il passo Julia Roberts, che appare distante e fasulla nei suoi parrucconi biondo miele e calca troppo sia l'accento che l'alterigia del suo personaggio.

Non può mancare un accenno alla regia di Nichols, che, come sempre, è risoluta, fertile e imprevedibile persino nella gestione di campo e controcampo nei dialoghi. Tante idee e tanto talento, e una realizzazione sontuosa, per una pellicola che sfiora soltanto l'eccellenza, perché, se è vero che ad un tempo intrattiene e stimola la riflessione, pecca forse di eccessivo sarcasmo e di troppo poco cuore.

Movieplayer.it

3.0/5