Abbiamo l'uomo immobile che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell'idea cinematografica.
Con queste parole, nel suo libro-intervista con François Truffaut, Alfred Hitchcock descriveva il concetto alla base di uno dei film più importanti e celebrati della sua carriera, La finestra sul cortile. Un'idea, quella del cinema come sistema fondato su meccanismi di osservazione e reazione, ben presente fin dagli albori della settima arte, e già ampiamente teorizzata dal regista russo Lev Kuleshov, secondo il quale ciascuna inquadratura risulta ineluttabilmente legata a ciò che la precede e a ciò che la segue.
È anche il principio alla radice de La finestra sul cortile, considerato il film per antonomasia sull'atto stesso dell'osservare, e proprio in tal senso da ritenere un'opera intrinsecamente meta-cinematografica. Capitolo imprescindibile nell'itinerario del "maestro del brivido", La finestra sul cortile veniva presentato in anteprima a New York il 1° agosto 1954, e nel corso dell'anno avrebbe riportato gli incassi più alti mai registrati da una pellicola di Hitchcock fino ad allora, oltre ad avere l'onore di inaugurare la 15° edizione del Festival di Venezia.
Anatomia di un capolavoro
Per un regista quale Hitchcock, avvezzo ad accoglienze talvolta contrastanti da parte della stampa (la sua definitiva canonizzazione avrebbe avuto inizio solo di lì a pochi anni, grazie ai giovani critici dei Cahiers du cinéma), La finestra sul cortile rappresentò un indiscutibile trionfo artistico e commerciale, coronato da un sensazionale successo di pubblico e da quattro nomination all'Oscar (inclusa una candidatura per la miglior regia). Nei sei decenni a venire, e nonostante un lungo periodo di "assenza" dagli schermi dovuto ad un problema di diritti (il film sarebbe stato riproposto agli spettatori soltanto a partire dal 1983), La finestra sul cortile ha consolidato ulteriormente la propria fama, esercitando un'influenza fondamentale su numerosi titoli che, per un verso o per l'altro, mostrano degli evidenti "debiti" verso il cult hitchcockiano: da Omicidio a luci rosse, un esplicito omaggio di Brian De Palma al suo regista più amato, al recente Disturbia, mediocre rivisitazione de La finestra sul cortile, oltre a un remake televisivo del 1998 con Christopher Reeve (ma si potrebbe ricordare anche Misterioso omicidio a Manhattan di Woody Allen).
Inserito dall'American Film Institute nella classifica dei 100 migliori film di tutti i tempi, La finestra sul cortile è stato oggetto di una quantità incalcolabile di citazioni, e ancora oggi non cessa di stupire per il carattere straordinariamente innovativo della messa in scena. In occasione del 60° anniversario della sua uscita, tentiamo di riscoprire le ragioni che hanno reso il thriller di Hitchcock una pietra miliare della suspense cinematografica (e non solo).
Dalla pagina allo schermo
L'origine de La finestra sul cortile si può rintracciare in It Had to Be Murder, un racconto pubblicato nel 1944 dal popolare giallista Cornell Woolrich. Nel campo del mystery-novel, Woolrich è stato uno degli autori più corteggiati dal cinema: moltissimi sono infatti gli adattamenti dei suoi romanzi per lo schermo, fra cui La donna fantasma di Robert Siodmak, La notte ha mille occhi di John Farrow e due intramontabili cult truffautiani, La sposa in nero e La mia droga si chiama Julie. Per arricchire la struttura decisamente essenziale del racconto di Woolrich, lungo appena una trentina di pagine, Hitchcock ingaggiò lo sceneggiatore John Michael Hayes, con il quale di lì a breve sarebbe tornato a collaborare per Caccia al ladro, La congiura degli innocenti e L'uomo che sapeva troppo.
La peculiarità del copione realizzato per La finestra sul cortile, tuttavia, risiede nell'assoluta prevalenza delle immagini, ovvero di ciò che osservano i personaggi e delle loro reazioni, rispetto alla componente dialogica, come confermava Hitchcock medesimo nell'intervista a Truffaut: "Il dialogo deve essere un rumore in mezzo agli altri, un rumore che esce dalla bocca e dai personaggi le cui azioni e sguardi raccontano una storia costruita attraverso immagini". Una consapevolezza che il regista inglese aveva mutuato fin dall'epoca dei suoi esordi, all'inizio degli anni Venti, quando il giovane Hitchcock aveva imparato a servirsi degli strumenti e delle potenzialità del cinema muto, e quindi dell'immagine "pura", come veicoli per suscitare l'interesse del pubblico e tenerlo con il fiato sospeso.
Professione fotoreporter
Tali principi risultano a maggior ragione validi nel caso de La finestra sul cortile: un film sullo sguardo, sull'ossessione di osservare - e di spiare - come atto fondativo del cinema stesso, nel quale la macchina da presa finisce in più occasioni per aderire all'occhio del protagonista L.B. Jefferies, impersonato da uno degli attori favoriti di Hitchcock, James Stewart, il quale aveva già recitato per il maestro del brivido in un altro thriller seminale, il magnifico Nodo alla gola del 1948. Temporaneamente invalido a causa di una gamba ingessata, Jefferies, che di professione fa il fotoreporter, è costretto a tenere a bada il proprio spirito avventuroso, e tenta di distrarsi dalla noia e dal caldo di una torrida estate newyorkese scrutando le azioni quotidiane dei suoi dirimpettai attraverso la finestra sul cortile del titolo, spesso ricorrendo all'ausilio di un binocolo.
Alla "passività" del protagonista, bloccato su una sedia a rotelle e incapace di muoversi dal soggiorno del suo appartamento, corrisponde un'inviolabile unità di luogo, resa possibile grazie al gigantesco set - l'ampio condominio e il cortile interno - interamente costruito in studio, teatro del mistero sul quale Jefferies sceglierà di indagare: l'omicidio (reale o solo ipotizzato?) di Anna Thorwald (Irene Winston) da parte del marito Lars (Raymond Burr, il futuro Perry Mason televisivo). Da questo punto di vista, nel personaggio interpretato da Stewart è possibile individuare al massimo grado l'eterno conflitto proprio di tanti eroi hitchcockiani: la dicotomia fra un senso di rispettabilità legato ad una morale tipicamente borghese e l'insopprimibile desiderio di trasgressione, che nel caso de La finestra sul cortile si manifesta nella morbosa curiosità di Jefferies nei confronti dei suoi vicini... che si tratti della procace ragazza che balla in biancheria intima nel bel mezzo del salotto o dei loschi movimenti notturni di un presunto assassino.
Il fascino (in)discreto della borghesia
Il condominio su cui James Stewart dirige la propria attenzione assurge così a ideale microcosmo, circoscritto entro i limiti del cortile, di un'umanità variegata in grado di esercitare un sorprendente potere di fascinazione, tanto sul protagonista quanto sullo spettatore stesso. Dietro la facciata di apparente "normalità" dei vicini di Jefferies, il film lascia emergere a poco a poco i piccoli drammi privati di ciascun personaggio, gli aspetti più ambigui della loro routine, oppure quelli che stuzzicano maggiormente il voyeurismo di Jefferies. Il filo conduttore di questi short cuts, frammenti di esistenze appena sfiorate da uno sguardo indiscreto, può essere ricondotto a un altro tema chiave del cinema hitchcockiano: l'Eros. Mentre Jefferies è impegnato a fare chiarezza nella propria vita privata e si trova a dover prendere una drastica decisione a proposito del suo rapporto con Lisa Carol Fremont, una bellissima socialite che ha il volto angelico di una magnetica Grace Kelly, l'inestricabile complessità delle relazioni fra uomo e donna pare riflettersi, a vari livelli, nelle situazioni offerte dal "panorama" della finestra del fotografo: dalla coppia di sposini novelli impegnati in incessanti sessioni erotiche ai coniugi di mezza età che hanno risposto tutto il loro affetto in un vivace cagnolino; da Miss Torso (Georgine Darcy), la conturbante ballerina che si destreggia fra un ventaglio di frequentazioni maschili, alla malinconica Miss Lonelyheart (Judith Evelyn), che simula immaginari appuntamenti romantici nella solitudine della propria casa. Una figura, quest'ultima, dalla quale trapela uno struggimento prossimo a tracimare in una silenziosa disperazione: una disperazione interrotta provvidenzialmente dalla dolce melodia di un compositore (Ross Bagdasarian), nel cui appartamento fa capolino anche la ben nota sagoma di Hitchcock, intento ad aggiustare un orologio.
Hitchcock blonde: Grace Kelly
L'inconciliabilità fra il genere maschile e il genere femminile, esasperata dall'elemento dell'uxoricidio, si configura pertanto come il fulcro di una dialettica che contraddistingue tutta la produzione di Hitchcock, in un'incessante "guerra dei sessi" che in alcuni casi ha assunto connotazioni quasi da commedia brillante - Michael Redgrave e Margaret Lockwood ne La signora scompare, Carole Lombard e Robert Montgomery ne Il signore e la signora Smith - e in altri gli inquietanti contorni di un ménage vissuto come una soffocante trappola mortale: i travagliati matrimoni di Joan Fontaine in Rebecca, la prima moglie e Il sospetto, ma anche quello fra Ingrid Bergman e Claude Rains in Notorious - L'amante perduta, fino al tentato omicidio di Grace Kelly da parte del marito Ray Milland ne Il delitto perfetto.
Ne La finestra sul cortile, alla suspense legata alle indagini su un omicidio fa da contrappunto la suspense, assai più lieve ed ironica, relativa alle sorti del fidanzamento tra Jefferies e Lisa. Per il ruolo di questa giovane donna sofisticata dell'alta società di Manhattan, il regista convocò la sua nuova attrice musa, la ventiquattrenne Grace Kelly, perfetta esemplificazione della "bionda alla Hitchcock". Elegantissima negli splendidi costumi disegnati da Edith Head, pronta a "materializzarsi" nel salotto di Jefferies come una visione celestiale o a servirgli una sontuosa cena direttamente dal suo ristorante preferito, Lisa (che dà il titolo alla canzone composta da Franz Waxman, leit-motiv della colonna sonora) reclama la piena legittimazione del loro rapporto mediante il vincolo del matrimonio: e pur di raggiungere il suo scopo, dimostrando di essere la "donna perfetta" per Jefferies, Lisa rivelerà un'insospettabile intraprendenza, introducendosi di soppiatto nell'appartamento di Thorwald. Hitchcock arriverà addirittura ad inquadrarla mentre esibisce al proprio dito la fede nuziale della signora Thorwald, in un sarcastico momento di convergenza fra il plot giallo e il subplot romantico.
Le vite degli altri: l'occhio del voyeur
Oltre alla coraggiosa Lisa, l'altra partner di L.B. Jefferies nella sua bizzarra investigazione è Stella, la solerte infermiera che viene ad assisterlo a domicilio, dispensando di tanto in tanto perle di pragmatica saggezza matrimoniale. Ad interpretare questo formidabile ruolo, Hitchcock chiamò una delle più talentuose caratteriste nella storia di Hollywood: l'irresistibile Thelma Ritter, la quale non esita a stemperare la tensione drammatica in un liberatorio humor nero, come quando si sofferma sui dettagli più macabri del delitto in questione ("Io penso che l'abbia sparpagliata per tutta la città: un braccio nel fiume, una gamba..."). O come quando, al principio del film, ammonisce Jefferies con tono di rimprovero: "Siamo diventati una razza di guardoni!". Una frase emblematica del più profondo nucleo tematico de La finestra sul cortile: il voyeurismo come pulsione fondamentale del comportamento di ciascun essere umano. Jefferies, la cui empatia è favorita dal carisma divistico di James Stewart, non esita ad abbandonarsi a questa pulsione, accettando il rischio di lasciarsi soggiogare dalla perversione del "Peeping Tom", come lo chiama Stella nella versione originale del film (un'espressione idiomatica che qualche anno più tardi sarà ripresa da Michael Powell per il titolo inglese de L'occhio che uccide).
Allo stesso modo, lo spettatore accetta di condividere l'illecita curiosità del protagonista, insinuandosi subdolamente nelle "vite degli altri", fino ad una totale coincidenza fra lo sguardo di James Stewart e quello extra-diegetico del pubblico attraverso il ricorso alle riprese in soggettiva: quasi ogni inquadratura che ci mostra lo spazio al di fuori della finestra è filtrata infatti dallo sguardo di Jefferies. In fondo, si tratta della formula che ha contribuito a rendere La finestra sul cortile uno dei più grandi classici di sempre: indurre lo spettatore ad un sentimento di identificazione, e quindi di coinvolgimento emotivo, in cui il senso di colpa si amalgama all'eccitazione per il proibito ed il pericolo. Fino al punto in cui, come accade a Jefferies, anche per noi diventerà impossibile distogliere lo sguardo...