Capita che chiudiamo gli occhi e viviamo altre vite. La mente vaga e il processo macchinoso della fantasia comincia a produrre dialoghi, frammenti di una quotidianità a noi estranea, possibile, aliena e altra. Capita che chiudiamo gli occhi e ci perdiamo nell'universo del possibile, degli sliding-doors perduti e acciuffati. Una spinta ipotetica lanciata sulla forza del "se" e del "chissà" che ci conduce spesso anche tra le sale di un cinema, di quel tempio della fantasia, dell'immaginazione e della possibilità di vivere vite altrui, per estraniarci dalla nostra realtà ed essere altro, qualcosa che non ci appartiene ma che vorremmo essere.
Come sottolineeremo nella nostra recensione de La doppia vita di Madeleine Collins la protagonista del nuovo film di Antoine Barraud (presentato nella sezione autonoma delle Giornate degli Autori alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia) non si limita a immaginare una doppia vita, ma la traduce in qualcosa di concreto, una possibilità fattasi certezza ma pronta a distruggersi come una palla di vetro che tocca terra.
LA TRAMA
Non è facile essere se stessi, figuriamoci il doppio nel nostro essere, l'ombra di Chi siamo e di chi auspichiamo divenire. Eppure Margot/Judith pare aver trovato un giusto compromesso, una scissione interiore che le permette di cambiare identità divenendo ora madre e moglie perfetta del direttore di orchestra Melvil, ora compagna del giovane Abdul e madre di una piccola bambina di pochi anni. Architetto di esistenze al quadrato, Margot/Judith costruisce due binari su cui lasciar correre un unico treno, quello di un corpo perpetuamente in balia di due corse destinate prima o poi a incontrarsi in uno scontro fatale.
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L'ORDINE DEL CAOS
È sfuggente la sceneggiatura dello stesso Barraud in collaborazione con Héléna Klotze, e così deve essere per un thriller psicologico volto a offrire al proprio pubblico poche certezze e pochi indizi attraverso i quali costruire un percorso accidentato lungo cui perdersi e lasciarsi trascinare. Suggerendo le regole fondamentali di questo gioco della mente, Barraud intrattiene il proprio pubblico tempestandolo di enigmi, domande, quesiti a volte volutamente senza risposte, e per questo capaci di sospendere i giudizi affidandosi all'istinto. Il regista sa che non vi sarebbe divertimento dietro il completo disvelamento del meccanismo fallace azionato da Margot/Judith; ed è proprio sfruttando tali lacune che riesce a rendere partecipe il proprio spettatore, curioso di sapere fino a che punto la donna si spingerà, e quali confini supererà trascinando nel baratro l'esistenza propria e altrui.
LA CADUTA DELLA RISOLUZIONE DEI GIOCHI
Bomba a orologeria pronta a esplodere per la forza di un incontro non previsto, è dalla potenza di questa deflagrazione che ogni tessera troverà la propria posizione e il puzzle potrà essere completato e finalmente compreso. Ma se l'attesa, e i frammenti esistenziali che costituiranno la rampa di lancio della caduta dell'(anti)eroe, sono intrisi di suspense e interesse, il momento della rivelazione e le conseguenze che tale climax porta con sé virano sui confini dell'esagerazione. Perso il controllo è ora il caos a farsi largo nella mente fragile di Margot/Judith, eppure è paradossale come dopo tanto disordine, sia proprio nel momento della rivelazione e della massima espressione di un'umana fragilità repressa che tutto si sfilacci e perda di mordacità. Abituata a dividersi e pensare in termini di dualità (doppia casa, doppio lavoro, doppie bugie) una volta che tutto si distrugge lasciando dinnanzi a lei un solo percorso da seguire, la protagonista crolla psicologicamente. Una disfatta personale sottolineata anche da un montaggio che da calibrato e disteso, si fa più dinamico e sincopato. Ciononostante, la sceneggiatura non riesce del tutto a entrare negli inframezzi di questa mente distorta e fratturata, portandola, nei suoi ultimi istanti sullo schermo, a incrinare tutto quello spettro mentale e psicologico costruito in precedenza con sapiente cura e attenzione. Respingente, eppure così mefistofelicamente attrattiva, vogliamo sapere di più su questa esistenza sibillina, eppure l'epilogo offerto tiri troppo all'estremo una fune pronta a rompersi cadendo nell'assurdo per allontanare il proprio pubblico dal processo di sospensione della realtà e di immedesimazione narrativa.
UN'ATTRICE, DUE RUOLI, UN SOLO FILM
La mancata risposta a un semplice quesito come "come vi chiamate" è sintomo anticipatore di questa esistenza che sopravvive lungo due binari, senza viverne completamente alcuno. Una duplicità esistenziale non solo suggerita da vestiti cromaticamente opposti (camicie bianche associabili a un'indole pura ed eterea per una famiglia; abiti neri e rossi per l'altra) ma anche da gesti, sguardi, e tonalità della voce apparentemente così uguali, eppure così divergenti gli uni dagli altri. A farsi carico di questa separazione interna è Virginie Efira attrice capace di sviluppare nell'arco di una stessa opera due performance differenti, senza mai risultare esagerata o caricaturale. Nella sua voce posata, e nei suoi sguardi persi, l'interprete dona al proprio personaggio un senso di umanità travagliata, e una psicologia disunita, soggiogata da un essere parassitario interno che si nutre reciprocamente delle soddisfazioni e realtà domestiche altrui. In costante equilibrio tra due donne che intendono emergere, l'una ai danni dell'altra, la Efira struttura la propria performance sull'arco dell'ambiguità e delle micro-opposizioni, come se stesse girando due film diversi, con protagoniste due personaggi femminili differenti. Un'interpretazione solida, credibile, che va ad opporsi a quella di comprimari solo suggeriti, e poco tratteggiati. Quelle dei due mariti, dei figli, o dei genitori, sono figure che fanno la propria comparsa come ombre soggiogate dalla forza distruttrice di Margot/Judith. Una scelta perfettamente in linea e rispondente a un'opera in cui risulta preminente il desiderio di inabissarsi tra le profondità di una mente scheggiata e un'esistenza che tenta l'ubiquità per raccogliere frammenti di vite sperate e ora perdute.
TUTTO IL MONDO É DOPPIAMENTE TEATRO
In uno scenario enigmatico e ambiguo, dove la realtà si mescola all'apparenza in un vortice che ricorda l'opera Alain Resnais, mentre l'ambiente borghese si fa nucleo e grembo generante psicosi e ambiguità memori di quelle firmate da Alfred Hitchcock, La doppia vita di Madeleine Collins si fa nebbia fitta, puzzle della mente che attira lo spettatore in questo maelstrom psicologico dove i sospetti e le intrusioni di parenti e colleghi faranno da collante delle due entità. Come un'attrice incapace di ricordarsi le proprie battute, perdendosi sul palcoscenico della vita, così la protagonista si farà spettro in perenne peregrinazione, costantemente in viaggio, al confine di un'identità disturbata e sempre sull'orlo del collasso. Un'identità alla ricerca di un posto in un mondo dove tutto è doppiamente teatro e tutti doppiamente attori.
Conclusioni
Concludiamo questa nostra recensione de La doppia vita di Madeleine Collins sottolineando come questo film rientri perfettamente nei canoni del buon thriller psicoloigco. Senza mai svelare pienamente le proprie carte, il regista immerge lo spettatore di una mente fallace come quella della propria protagonista, attrice di due perfomance che non riesce più a sentire proprie.
Perché ci piace
- La performance di Virginie Efira
- La regia nascosta
- Il mostrare troppo senza rivelare niente
Cosa non va
- Il finale che rovina una struttura costruita con ingegno e attenzione