Con la recensione de La donna del fiume - Suzhou River, ora nelle sale italiane nella versione restaurata che ha fatto parte del programma della Berlinale 2022, ripercorriamo due decenni di storia del cinema, in particolare quello cinese: trattasi, infatti, di un lungometraggio risalente al 2000, ma rimasto semi-invisibile per anni nonostante i numerosi apprezzamenti in Europa (vinse il Tiger Award a Rotterdam e il premio FIPRESCI, assegnato dalla critica internazionale, alla Viennale), a causa del rapporto controverso tra il regista Lou Ye e la censura cinese. Il cineasta, che fa parte della cosiddetta sesta generazione di registi del suo paese (insieme a colleghi come Jia Zhang-ke e Diao Yinan), è infatti spesso in conflitto con le autorità locali, e la sua opera seconda gli valse un divieto di esercitare la professione per due anni (e lo stesso accadde, questa volta per cinque anni, nel 2006 quando mandò il suo quarto film a Cannes senza aver prima chiesto il permesso all'ufficio censura).
Eppure, come ha spiegato il produttore introducendo la proiezione berlinese della copia restaurata (chi scrive ha visto il film in tale circostanza), La donna del fiume - Suzhou River ha continuato a godere di grande popolarità in Cina tra i cinefili giovani, ed è uno dei film nazionali più visti di sempre in patria grazie alla pirateria, dato che le difficoltà professionali di Lou Ye portarono anche al divieto di distribuirlo legalmente sul territorio cinese. Una situazione che solo di recente è cambiata, e ha quindi reso possibile il restauro della pellicola e la sua distribuzione cinematografica su larga scala, dando agli appassionati di cinema d'autore l'opportunità di (ri)scoprire uno dei titoli più importanti delle cinematografie orientali degli ultimi due-tre decenni.
Due donne e un mistero
La storia ruota attorno alle vite di quattro personaggi, tra cui l'anonimo narratore che documenta tutto con una telecamera e non appare mai sullo schermo. A lui spetta il compito di raccontare la vicenda di Mardar e Moudan, rispettivamente un corriere che si dà anche a piccoli crimini e la figlia di un ricco uomo d'affari. I due si innamorano, ma le attività losche di lui sfociano nella tragedia quando lei scompare senza lasciare traccia, essendosi apparentemente gettata nel fiume, e lui viene arrestato. Anni dopo, Mardar ritorna a Shanghai e riprende l'attività da corriere, e tra un turno di lavoro e l'altro continua a cercare l'amata, convinta che lei sia ancora viva. E poi, un giorno, incontra una ragazza fisicamente identica a Moudan: si tratta di Meimei, che si esibisce in un locale ed è anche la compagna del narratore...
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Tutto scorre
Non è la prima volta che il mercato italiano porta in sala un film anni dopo l'uscita in altri paesi (basti pensare a Brian di Nazareth, che da noi arrivò nel 1990 pur essendo del 1979), e in questo caso, al netto della complicata storia produttiva di cui abbiamo parlato in apertura di articolo, l'età del secondo lungometraggio di Lou Ye è praticamente impercettibile, dato che lui si rifà al noir e alle tradizioni hitchcockiane (in particolare La donna che visse due volte, ma anche il tema generale del voyeurismo) e per ragioni narrative e stilistiche racconta le periferie di Shanghai e non il centro, dando al racconto una qualità universale e fuori dal tempo, nonché una carica vitale - forse dettata dal budget più modesto - che nelle sue opere più recenti si è fatta pressoché invisibile (pensiamo al suo ultimo lungometraggio a oggi, Saturday Fiction, presentato in concorso a Venezia nel 2019).
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Con pochi ma potenti mezzi il regista firma una suggestiva e a suo modo romantica riflessione sul tempo che passa, incarnato dal fiume che scorre in mezzo alla città, e sull'ossessione in tutte le sue forme, collocata in un non-luogo sospeso tra terra e acqua, dove tutte le certezze sono messe alla prova. E proprio come Hitchcock ai tempi, riflette anche sulla natura della performance, con il duplice e complesso ruolo di Moudan e Meimei affidato a Zhou Xhun, all'epoca giovane star in ascesa (successivamente arrivata anche a Hollywood come membro del cast di Cloud Atlas) e ancora oggi indissolubilmente legata a questo secondo lungometraggio che ora ha diritto a una seconda vita cinematografica, un po' come i suoi personaggi che anni dopo cercano di ritrovare gli equilibri di un tempo.
Conclusioni
Chiudendo la recensione de La donna del fiume - Suzhou River, rimaniamo esterrefatti dinanzi alla potenza visiva e tematica di un film che, a più di vent'anni dall'uscita, ha ancora qualcosa da dire e merita questa seconda vita in sala.
Perché ci piace
- I quattro protagonisti sono eccellenti.
- Il lavoro sull'immagine è notevole.
- L'uso dell'acqua e della periferia come luoghi allegorici è molto potente.
Cosa non va
- Chi preferisce le opere più recenti di Lou Ye potrebbe avere da ridire sull'approccio più minimalista di questo film.