Da Jeeg Robot a La città proibita: il cinema di Gabriele Mainetti tra contaminazione e rivoluzione

La grande passione per il cinema americano e asiatico incontra la romanità: ne nasce un cinema italiano mai visto e sorprendente. Da amare e sostenere.

Gabriele Mainetti sul set de La città proibita

"Scrivi di quello che conosci": è un ormai celebre consiglio di Martin Scorsese a chiunque voglia raccontare una storia. La carriera di Gabriele Mainetti probabilmente lo farebbe felice, perché il regista, sceneggiatore, compositore, produttore e attore segue questo mantra fin dai suoi primi corti. In Basette (2008) ha trasformato Valerio Mastandrea in un Arsenio Lupen "de noantri", mentre in Tiger Boy (2012) prende spunto da un altro anime, L'Uomo Tigre, per parlare del disagio di un bambino. Riferimenti pop e crossmediali quindi, come dicono quelli bravi, ma sempre a servizio di un'unica grande passione: il cinema.

La Citta Proibita Ferilli Mainetti
Sabrina Ferilli e Mainetti sul set di La città proibita

E Mainetti il cinema lo adora sopra ogni cosa: si vede e si capisce dalla dedizione con cui lavora a ogni progetto, che insegue per anni, spesso creando nuovi modelli produttivi, che nella nostra industria non sono mai stati sperimentati. I riferimenti ai grandi autori americani e al cinema asiatico, da Steven Spielberg a Zhang Yimou, sono evidenti e dichiarati, ma il segreto dell'autore, che in soli tre film ha già creato un suo stile inconfondibile, sta nell'averli assimilati, per poi adattarli alla nostra cultura, al nostro immaginario.

Accanto a quello fantastico, fatto di supereroi, mostri e storie di kung fu, c'è infatti quello molto concreto e dissacrante di Roma, la città in cui è nato. Da cui non può prescindere: sia l'esordio Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), sia Freaks Out (2021) che il suo nuovo film, La città proibita, in sala il 13 marzo con PiperFilm dopo le anteprime dell'8, sono ambientati nella città eterna. E, proprio come il grande cinema con cui è cresciuto, Mainetti la conosce benissimo: nello spirito e nelle contraddizioni. Unendo queste due parti del suo essere ci regala un cinema postmoderno vivo, pieno di cuore, sincero. Volendo per forza fare un paragone, ormai è chiaro che sia il nostro Quentin Tarantino. Capiamo come lo è diventato in soli tre film.

Lo chiamavano Jeeg Robot: nel cinema italiano c'è un prima e un dopo Jeeg

Arrivato come un fulmine inaspettato, Lo chiamavano Jeeg Robot (recensione qui) è un film spartiacque. Non è un'esagerazione: nel cinema italiano c'è un pre e un post Jeeg. L'esordio alla regia di Mainetti non è il primo film di supereroi fatto in Italia: pensiamo a Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, uscito un anno prima, o a Il re dei criminali (conosciuto anche come L'invincibile Superman) di Paolo Bianchini, addirittura del 1968. La differenza la fa tutta il non aver semplicemente applicato il modello americano al nostro mercato, ma averlo rielaborato e rivoluzionato.

Ok i superpoteri, ma il protagonista non è un eroe senza macchia, perfetto e splendente. Al contrario: Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un disgraziato, mezzo criminale, a cui, una volta ottenuta la super forza, la prima cosa che viene in mente è andare a svaligiare un bancomat. Captain America inorridirebbe. Il suo antagonista, l'indimenticabile Zingaro di Luca Marinelli, non sogna di conquistare il mondo, ma di andare al Grande Fratello! Un'idea geniale: un cinecomic davvero popolare. E infatti il pubblico ha risposto con un grande calore: arrivato in sordina alla Festa del Cinema di Roma 2015, dopo la prima proiezione, addetti ai lavori e appassionati hanno dovuto litigarsi le repliche disponibili. Stessa cosa è successa con l'arrivo in sala: il passaparola è stato di quelli commoventi, che dilagano come un'onda.

Lo chiamavano Jeeg Robot: Luca Marinelli in una scena del film
Luca Marinelli è lo Zingaro in Lo chiamavano Jeeg Robot

Da attore e regista che ama gli attori, Mainetti ha saputo scegliere diversi interpreti che oggi, dieci anni dopo, sono tra i più bravi e apprezzati: Marinelli ovviamente, ma anche Salvatore Esposito e Antonia Truppo. E, soprattutto, ha dimostrato che si può fare un grande film spettacolare anche senza un budget "all'americana": contano le idee. E di idee ce ne sono moltissime in Lo chiamavano Jeeg Robot, non soltanto in scrittura, ma anche di regia: finalmente il cinema italiano può contare su qualcun altro, oltre a Stefano Sollima, in grado di girare scene d'azione e combattimenti strepitosi.

Il successo non è stato soltanto di pubblico: Lo chiamavano Jeeg Robot è stato ricoperto di premi dalla critica. Ai David di Donatello 2016 ha ottenuto 17 nomination, portandosi a casa ben 8 premi. Quella sera è cominciata la rivoluzione.

Freaks Out: nuovi modelli produttivi

Laddove in USA un altro regista avrebbe spremuto il limone e il successo, realizzando uno o più sequel, Mainetti ha rivelato tutta la propria anima romantica scegliendo di non andare sul sicuro. È rimasto a Roma, ma l'ha trasformata in quella della Seconda Guerra Mondiale. Unendo stavolta il cinema neorealista di Roma città aperta di Roberto Rossellini a quello di mostri. Il soggetto e la sceneggiatura sono sempre di Nicola Guaglianone, con cui aveva lavorato anche per Jeeg, ma stavolta l'ambizione e il budget sono molto più alti.

Con questo film è soprattutto il produttore Mainetti ad aver sfidato se stesso e tutta l'industria: per girare le scene d'azione ha dovuto infatti trovare metodi di lavoro nuovi. Pensiamo alle scene di guerra con i fucili: ricaricarli in tempi brevi era un problema e si è dovuto trovare un modo efficiente per far sì che le riprese non fossero rallentate. Il lavoro con i coordinatori degli stunt è diventato quindi fondamentale. In America si parla da anni di introdurre la categoria degli Oscar per gli stuntmen, così da valorizzare il loro prezioso lavoro. Da noi invece queste figure hanno cominciato ad essere apprezzate davvero forse proprio in questi ultimi dieci anni, grazie a registi come Mainetti, Sollima e Matteo Rovere.

Uscito in un momento difficile, in piena pandemia e con le sale riaperte da poco o chiuse, Freaks Out è stato poi riscoperto in streaming. Oggi è innegabile riconoscere che sia un animale complesso, da studiare: sicuramente per quanto riguarda la produzione.

La città proibita: verso l'infinito e oltre

La Citta Proibita Liu Yaxi
Yaxi Liu in La città proibita

Il regista ci aveva depistato: dopo Freaks Out ha dichiarato che il suo prossimo film sarebbe stato un horror. Invece, folgorato come San Paolo sulla via di Damasco, ha deciso di dirigere La città proibita, che inizialmente avrebbe dovuto soltanto produrre. E siccome, ormai l'abbiamo capito, la sua ambizione è grande tanto quanto il suo entusiasmo, questa volta ha deciso, dopo aver rivoluzionato come si girano le scene di guerra in Italia, di mettere mano anche ai film di kung fu.

Questa è infatti la storia di una ragazza cinese, Mei, che arriva a Roma per cercare la sorella. Non si tratta di una ragazza qualsiasi: è un'esperta di arti marziali ed è inarrestabile. Siccome i film di Mainetti partono sempre dal concreto, dalla realtà, il regista ha deciso di non fare il percorso classico, ovvero scegliere un'attrice a cui affiancare una controfigura. Troppo semplice. Ha preferito fare il contrario, ovvero trasformare una stuntwoman in un'attrice: Yaxi Liu è una forza della natura. È un'atleta, ma è dotata anche di grazia e ha un volto molto espressivo. Il rischio ha ripagato.

La Citta Proibita Borello Giallini
Enrico Borello e Marco Giallini in La città proibita

In La città proibita ci sono diverse scene di combattimento, di cui una, quella che apre il film, che è un capolavoro a sé: anche questa è da studiare, fotogramma per fotogramma. In mano a Mei ogni cosa diventa un'arma, in una coreografia che è tanto violenta quanto divertente. Un'altra dimostrazione di come l'immaginario del regista sia fatto di contaminazioni che si esaltano l'un l'altra. Stavolta in sceneggiatura ci sono, sempre insieme a Mainetti, la favolosa coppia formata da Stefano Bises e Davide Serino, autori delle più belle serie italiane degli ultimi anni, da Il Miracolo a M. Il figlio del secolo.

La città proibita, recensione: Gabriele Mainetti mira in alto... e colpisce al cuore La città proibita, recensione: Gabriele Mainetti mira in alto... e colpisce al cuore

Senza smentirsi, anche qui non manca l'attenzione dell'autore ai volti giovani da scoprire: oltre a Yaxi Liu, tenete d'occhio Enrico Borello, che ha il ruolo di Marcello, cuoco che aiuta la protagonista nella sua ricerca. Nel suo sguardo triste c'è tutta l'anima più malinconica dell'autore e di Roma stessa. Quella che continua a emozionarsi per la bellezza della luce dorata e inconfondibile della città, che in qualche modo, pur mettendoti alla prova ogni giorno, ti scalda e ti fa andare avanti con speranza nel futuro. Accanto a loro, alcuni dei volti più famosi della nostra industria: Sabrina Ferilli, Marco Giallini, Luca Zingaretti. È commovente la capacità di Mainetti di reinventarli, mostrandoli in una chiave completamente diversa. Così come è commovente la volontà di artisti affermati di farsi stravolgere, mettendosi completamente al servizio di un autore che è solo al terzo film ma che, loro lo hanno intuito da tempo, rappresenta il futuro del cinema italiano.