Tu possiedi l'odio: un odio giovane, puro, assoluto! Ma sta' attento: questo potenziale di energia e furore è troppo importante per farne la ragione di una personale vendetta.
Non è certo fonte di stupore la passione di Rainer Werner Fassbinder nei confronti de La caduta degli dei, definito dal grande regista tedesco come "il film che penso significhi, per la storia del cinema, quanto Shakespeare per la storia del teatro". Le parole di Fassbinder, sebbene iperboliche, suggeriscono del resto il senso di cupa meraviglia suscitato da una delle opere più ambiziose mai realizzate da Luchino Visconti: una rilettura dei canonici temi shakespeariani, con un'ispirazione dichiarata a Macbeth, attraverso suggestioni wagneriane e nella cornice di uno dei periodi più foschi nella storia della Germania, i due anni che segnarono l'ascesa di Adolf Hitler e del regime nazista.
Il film, che debuttava nelle sale italiane il 16 ottobre 1969, chiude un decennio particolarmente glorioso per il regista milanese, aperto nel 1960 da un altro suo capolavoro, il "romanzo popolare" Rocco e i suoi fratelli, proseguito nel 1963 con il sontuoso affresco storico de Il Gattopardo e poi, nel 1965 e nel 1967, con il dramma intimista Vaghe stelle dell'Orsa... e con Lo straniero, trasposizione del romanzo di Albert Camus. La caduta degli dei, svincolato invece da legami specifici con la letteratura, fonde insieme una pluralità di echi e di spunti tematici, dal teatro di Shakespeare alla tragedia greca, dal melodramma al Bildungsroman, ma con una novità inedita per Visconti: un alone di mostruosità e di ferocia che si fa via via più denso e opprimente con il trascorrere dei minuti.
La saga dei von Essenbeck: gruppo di famiglia in un inferno
Perché la saga dei von Essenbeck, ricchissima famiglia della borghesia industriale nella Germania della Repubblica di Weimar, potrebbe quasi essere considerata una rilettura "in nero" de Il Gattopardo: lì si trattava dello splendore decadente dell'antica aristocrazia terriera del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dell'unità d'Italia; qui della decadenza morale della nuova classe dirigente tedesca alla vigilia di uno dei passaggi fondamentali dello scorso secolo, la nascita del Terzo Reich. Non a caso la lunga sezione d'apertura è ambientata durante la fatidica serata del 27 febbraio 1933: la notte dell'incendio del Reichstag, un primo punto di non ritorno nella discesa della Germania dentro l'abisso della dittatura.
Ed è appunto la notizia dell'attentato al Reichstag che piomba all'improvviso fra gli invitati al ricevimento per il compleanno del Barone Joachim von Essenbeck (Albrecht Schönhals), magnate dell'industria dell'acciaio, facendo esplodere le latenti rivalità fra i membri della famiglia. Da un lato la nuora Sophie (Ingrid Thulin) e il nipote Konstantin (Reinhard Kolldehoff), membro delle SA; sul fronte opposto l'altra nipote, Elisabeth (Charlotte Rampling), e suo marito Herbert Thallman (Umberto Orsini), fiero antinazista e condannato pertanto a cadere in disgrazia agli occhi del Barone. Il meccanismo spietato della Storia si sta mettendo in atto e i von Essenbeck, con l'eccezione di Herbert ed Elisabeth, hanno la piena intenzione di sfruttarlo a proprio vantaggio, fiancheggiando Adolf Hitler nella sua scalata ai vertici della nazione.
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Lotta di potere nella Germania hitleriana
In questa prospettiva si esplica la natura shakespeariana di quasi tutti i personaggi del film: avidi, opportunisti, spregiudicati, pronti a scatenare una lotta fratricida pur di muovere qualche passo sulla scacchiera del potere. Quello dei von Essenbeck è un microcosmo ammantato di opulenta eleganza, ma al di sotto della superficie inesorabilmente marcio e corrotto. Non c'è più spazio per la malinconica nobiltà d'animo del Principe di Salina: il suo posto è destinato ad essere preso dalla nuova borghesia rampante incarnata dal dirigente Friedrich Bruckmann (Dirk Bogarde), novello Faust disposto a vendersi l'anima al diavolo e a sporcarsi le mani di sangue, e dal machiavellismo senza scrupoli del suo Mefistofele, Aschenbach, ufficiale delle SS che ha la melliflua sgradevolezza dell'attore Helmut Griem (lo ritroveremo, tre anni più tardi, nel cast di un altro magnifico classico inserito nello stesso contesto storico, Cabaret di Bob Fosse).
La resa dei conti fra i vari antagonisti giungerà ad una svolta il 30 giugno 1934, nella famigerata "notte dei lunghi coltelli": uno fra i capitoli più oscuri della storia tedesca, che Luchino Visconti rievoca in una pagina di cinema grandiosa e raggelante. Il soggiorno degli ufficiali delle SA nella cittadina bavarese di Bad Wiessee e il loro successivo eccidio è rappresentato dal regista in una straordinaria macrosequenza di ben sedici minuti: dall'atmosfera idilliaca del lago Tegernsee ai bagordi serali, fra balli, canti, fiumi di alcol e ragazzi in abiti femminili, per culminare in una gigantesca orgia omoerotica nella pensione Hanselbauer; poco dopo, nel cuore della notte, l'irruzione delle SS e la carneficina. Mai, prima di allora, Visconti si era avventurato in una scena di tale, spaventosa potenza, con quel repentino cambio di toni e un'efferatezza granguignolesca degna de Il Padrino.
Martin von Essenbeck, la maschera mostruosa di Helmut Berger
Ma a svettare su tutti gli altri, in questa tragedia corale in cui gli orrori del Novecento si intrecciano con archetipi del teatro di Edipo e di Sofocle, è il figlio di Sophie, Martin: uno fra i ruoli più memorabili mai creati da Visconti, impersonato con stupefacente aderenza da quello che, da lì in poi, sarà l'attore-feticcio del regista, il venticinquenne austriaco Helmut Berger. Dal suo bizzarro esordio sul palcoscenico nel salotto del nonno, mentre balla e canta vestito come Marlene Dietrich ne L'angelo azzurro, alla severità militare esibita nell'epilogo nella sua tenuta da nazista, Martin von Essenbeck è una figura ammantata di un fascino sinistro e inquietante: un concentrato di sinuosa crudeltà e di perversioni senza freno, dalla pedofilia all'incesto, in cui sembra riflettersi la bestialità endemica della Germania di quegli anni.
Ma sarebbe limitante ridurre Martin a una sorta di allegoria storico-politica: nel suo tenebroso protagonista, che passa dal letto della prostituta Olga (Florinda Bolkan) alla camera di una piccola vittima inerme, Visconti tratteggia soprattutto l'(anti)eroe di un ributtante racconto di formazione, di un peculiarissimo melodramma declinato a tinte horror. E trova in Helmut Berger un interprete semplicemente perfetto: il gemello 'diabolico' dell'Alain Delon di Rocco e i suoi fratelli, dotato di una bellezza speculare a quella del divo francese, ma più provocante e luciferina. Il suo silenzioso primo piano mentre è nascosto sotto un tavolo, con la riga di trucco in cima alle sopracciglia e lo sguardo di ghiaccio diretto verso la macchina da presa, suggella come meglio non si potrebbe l'autentica dimensione del film: un ibrido impressionante che sfugge a ogni categoria.
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La follia nazista e gli spettri della coscienza
A Helmut Berger, che sarà il suo compagno fino alla morte del regista, Visconti affiderà nel 1973 un altro ruolo rimasto negli annali, quello Ludovico II di Baviera in Ludwig (oltre alla parte dell'ambiguo Konrad Huebel in Gruppo di famiglia in un interno), ma il Martin de La caduta degli dei resta l'apice di una carriera tramontata troppo in fretta. Un personaggio la cui malvagità viscerale convive tuttavia con tracce di fragilità, addirittura di tenerezza infantile, nel rapporto con la madre Sophie, ritratta dalla musa bergmaniana Ingrid Thulin come la Regina Gertrude di Amleto: perlomeno fino all'agghiacciante atto di violenza del prefinale e a quella conclusione indimenticabile, in cui una cerimonia di nozze viene trasformata in un beffardo rituale funebre.
È un'altra scena da antologia: il corpo riverso di Friedrich, il bianco cadaverico sul volto di Sophie, uno zoom all'indietro e poi un altro zoom, questa volta a inquadrare il saluto a braccio teso di Martin e il suo ultimo primo piano. E così a sessantadue anni d'età, e dopo tre decenni trascorsi nel mondo del cinema, ecco che Luchino Visconti si spinge laddove non aveva mai osato prima di allora, annegando qualunque barlume di realismo nei surreali contrasti di luci e ombre della fotografia di Pasqualino De Santis e Armando Nannuzzi. Perché La caduta degli dei è in primo luogo questo: un angoscioso incubo in cui prendono corpo e forma gli elementi più atroci della follia nazista, ma anche - e ancor di più - gli spettri innominabili e senza tempo della nostra coscienza.