È una fiaba nera, La caccia. Nessun "c'era una volta", e nemmeno un "vissero tutti felici e contenti". Nel film di Marco Bocci, i quattro fratelli protagonisti sono tutti vittime e carnefici, prede e predatori.
Eredi e contenitori di un passato tenuto celato e solo apparentemente rimosso, basta l'avvicinarsi al fuoco del ricordo, per sentire il dolore della cicatrice e ritornare a quello stato animale, furtivo, istintivo forgiato a seguito di un dramma familiare.
Ed è proprio partendo da questo assunto che Bocci ha dato vita a questa sua seconda opera da regista, come ci ha raccontato in questa intervista insieme a parte del cast della sua Caccia, in occasione della sua presentazione al Torino Film Festival.
Il potere lacerante del ricordo falsato
La caccia è un'opera nata partendo dalla potenza del ricordo, ma non quello netto, nitido, facilmente recuperabile e rappresentabile, bensì filtrato dalla fantasia e in essa mescolato. È un film che, come racconta Bocci, nasce "dai ricordi d'infanzia. Quelli che non sai se sono veri o falsati, che ti porti dietro per anni chiedendoti se effettivamente li hai vissuti o meno. E in un periodo in cui avevo poca memoria, a causa di un herpes cerebrale, mi sono messo a fantasticare su questo tema, e come possa influenzare la vita di tutti. Sono finito così proiettato in una dinamica famigliare dove il padre vizia il ricordo dei bambini, attraverso una violenza assistita e su cui modellare una menzogna. Ma quali danni può provocare una crescita del genere, e quanto può confondere la realtà sulla base di questa menzogna imposta? È su questi quesiti che nasce la mia Caccia."
Proiezioni paterne su specchi deformanti
E la risposta a queste domande è la nascita di quattro fratelli (interpretati da Pietro Sermonti, Laura Chiatti, Filippo Nigro e Paolo Pierobon) apparentemente normali, ma internamente instabili. Fratelli che tentano di afferrare una propria soddisfazione personale, di superare gli ostacoli, per poi cadere sempre tra le braccia dell'insicurezza. I suoi fratelli finiscono pertanto per essere le proiezioni dirette di quello che ha fatto credere loro il padre. Forti, indipendenti, ma senza esserlo veramente. Ed è quando se ne accorgeranno che tutto cadrà nel dramma. Ciò che lacererà corpo e anima a questi protagonisti sarà soprattutto il comprendere quanto simili al padre essi siano; una somiglianza che toccherà inevitabilmente il fratello maggiore (interpretato da Paolo Pierobon), colui che dovrebbe proteggere il nucleo fraterno, farsi capoguida e mentore salvifico. Eppure sarà proprio lui, il più segnato da questo rapporto paterno, ad avere più squilibri, risultati diretti di una consapevolezza reale di essere doppio del padre.
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L'amore che uccide
Con La caccia Marco Bocci segna il suo secondo ritorno dietro la macchina da presa dopo il suo ottimo esordio con A Tor Bella Monaca non piove mai. Due opere intrise di un forte carattere umano e di sguardi disillusi di un mondo pronto a rivelarsi nelle sue vesti reali, anche quando abitato da fantasia e continui simbolismi. "Mi sono accorto che i sentimenti su cui mi galvanizzo maggiormente e che mi piace raccontare sono quelli più profondi e neri, malsani e viziati perché dettati da un lutto, o da un trauma. Ma è l'amore tra fraterni e familiari che mi affascina sempre: un amore che può essere al contrario come in questo caso, o più sano come in Tor Bella Monaca". Ma in La caccia a farsi spazio è anche un'azione fatale, un taglio netto che recide la vita di una donna sposata, e di una madre amata. Un tema, quello del femminicidio, approfondito da Bocci "attraverso quelle conseguenze che di solito si ignorano, non per negligenza ma per attenzione di cronaca. Io ho voluto raccontare il dopo, compresa quella presunzione giustificante tale atto filtrata da quel pensiero folle ed egoistico del 'l'ho fatto per troppo amore'.
Collaborazioni tra menti affini
Ma un amore vero, forte e sincero Marco Bocci l'ha trovato nel corpo e nell'anima di un'attrice come Laura Chiatti. Una chimica dirompente, e invidiabile la loro, che adesso sconfina dalle pareti di casa per travolgere lo schermo di un cinema. Già, perché oltre a essere compagni di vita, Laura e Marco sono adesso compagni di set: "Conosco da tempo la Laura attrice, sebbene questa sia la nostra prima collaborazione cinematografica. Ciononostante, ero già a conoscenza di quanto generosa lei sia sul set, quanto si dia e si conceda. E così ha fatto anche con me; mi ha restituito una Silvia ancora più vulnerabile e profonda di quanto mi ero immaginato. Ma oltre a Laura, ho avuto la fortuna di trovarmi circondato da tutti attori di una disponibilità rara, sempre pronti a mettersi in gioco ed entrare nella mia visione come se non aspettassero altro".
Paolo Pierobon e l'importanza dell'immaginazione
E ad accompagnare Marco in questa intervista sono due di questo novero di grandi interpreti, capaci di tradurre in linguaggio drammaturgico e visivo gli schermi fantastici, e i caratteri immaginati da Marco Bocci: Pietro Sermonti e Paolo Pierobon, il quale parlando della sua esperienza sul set de La caccia parte proprio da quel fattore così ignorato come quello della fantasia. "Voglio spezzare una lancia a favore dell'immaginazione, piuttosto che dell'immedesimazione. Abitare questa visione di personaggio frustrato, continuamente in inclusione, piuttosto che in esplosione, non è un dato così raro da ritrovare attorno a noi. Quante persone che ci circondano, o che sentiamo alla tv, trovano in questa esplosione improvvisa un senso di frustrazione? Bisogna riuscire ad avere i limiti e le circostanze giuste per dar vita a un personaggio del genere, le stesse che mi ha dato Marco che sin dalla prima telefonata. Quando un regista ha le idee così ben chiare in testa, basta un ciak e tutto prende vita; nessuna situazione coercitiva attorno a noi, ma tanta libertà. Sebbene abbia messo dei recinti pronti a circondarci, Marco ci ha fatto sentire liberi di creare. Dopotutto, come diceva qualcuno, 'il testo è un carbone spento, ma per farlo diventare fuoco ci deve pensare l'attore".
Sermonti e la malinconia dell'essere brillante
Un pensiero, questo, preso e riproposto anche da Pietro Sermonti: "La cosa più importante per me è che Marco, ancor prima che regista, è un attore; una persona, cioè, che sa comunicare con chi sta davanti alla macchina da presa. Quella che ha creato è una struttura formale solida che mi ha consentito di vivere la vertigine dell'insicurezza totale, senza paura. Quando recito tendo sempre a dare del mio, a improvvisare: è un fattore di sicurezza per me. Ciononostante, con Marco mi sono ritrovato completamente assorto nel suo immaginario anomalo e distorto, il che mi ha spinto ad affidarmi totalmente a lui in questo racconto di bambini che si divertivano a raccontare l'orrore dello stare al mondo".
E sembra proprio un bambino Sermonti quando compare sullo schermo; lo abbiamo così tante volte visto a proprio agio nei panni del bambino mai cresciuto, della spalla comica, che ritrovarlo in quelli costretti e saturnini di Mattia disorienta e lascia sorpresi. Uno scarto che lo stesso attore ha abbracciato ampiamente, sfruttando tale occasione per mostrare una parte di sè molto più vicina al personaggio offertogli da Bocci, che a quella caratterizzante la maggior parte di suoi personaggi resi immortali. "Ho dato vita a Mattia cinque ore dopo aver finito con Stanis, un personaggio che invade tutto e delira sullo schermo. Il primo giorno di riprese, alle cinque del mattino, abbiamo girato l'ultima scena, e per me è stato un cortocircuito da cui ancora non mi sono ripreso. Quando si è un attore di commedie in Italia è difficile suonare altre corde. Per indole, mi sento molto Amleto e Costantin de Il Gabbiano, o a un personaggio come Mattia; io, come penso la maggior parte degli attori brillanti e comici, viviamo di una profonda malinconia collosa. Il mio personaggio all'inizio sembra quello più sicuro e meno toccato dall'incubo, ma solo perché ha saputo scappare nella fantasia, diventando un artista. Si tratta di un meccanismo umano tipico di coloro che hanno subito traumi molto forti - me compreso - attraverso il quale si scappa nei meandri della fantasia perché non si sopporta il rumore della realtà. Ringrazio pertanto Marco e Rai cinema per il coraggio dimostrato nel raccontare un film del genere, così crudo, selvaggio, non accomodante".
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Ricordami, anche se falsato, ricordami
Proprio per il suo essere radicato nella potenza del ricordo, falsato o reale che sia, viene da chiedersi quale sia l'esperienza del passato a cui gli interpreti de La caccia sono più legati. Per Marco Bocci sono "le uscite con il padre, e il campeggio in famiglia". Lo stesso campeggio che ritorna nel ricordo di Paolo Pierobon, sebbene permanga il dubbio che tale evento sia veramente accaduto: "Non so quanto vero possa essere questo ricordo. Dopotutto stiamo parlando di ricordi sfalsati no? Avrò avuto 8 anni. Ero in campeggio e i miei mi avevano lasciato solo in tenda, quando sentii un gruppo di tedeschi urlare e divertirsi. Così uscii e iniziai a urlare contro di loro, fino a picchiare uno di questi giovani". Particolarmente toccante è invece il ricordo di Pietro Sermonti il quale a quattro anni perse la sorella maggiore, da tempo malata. "Quando sei piccolo e ti vedi privato dell'attenzione da parte dei tuoi cari a favore perché orientata verso chi ne ha più bisogno, speri che quell'ostacolo sparisca, e quando questo accade ti senti in un qualche modo colpevole di questa assenza. Ecco, il mio ricordo è quello della paura di essermi sentito responsabile di questa perdita".