Si conclude oggi la 59. edizione del Festival Internazionale di Berlino, un'edizione da record per quanto riguarda i numeri (oltre 270.000 biglietti venduti e 20.000 accreditati da 136 paesi), meno memorabile per quanto riguarda la qualità media dei film proposti soprattutto nella sezione competitiva. La giuria internazionale presieduta da Tilda Swinton e composta (tra gli altri) dai registi Isabel Coixet e Wayne Wang ha avuto in un certo senso vita facile considerato che dei diciotto film quelli veramente in grado di concorrere per l'Orso d'oro erano circa un terzo, ma va comunque premiata la coerenza e il coraggio di una giuria che per una volta si è anche "allineata" alle scelte dei critici, come dimostra il film The Milk of Sorrow, Orso d'oro ma anche premio FIPRESCI. Il film della regista trentaduenne peruviana Claudia Llosa è d'altronde il più classico dei film festivalieri (ricorda per alcuni aspetti anche l'Orso d'oro di due anni fa, Il matrimonio di Tuya) ma è anche e soprattutto un film dalla spiccata sensibilità femminile che a quanto pare ha fatto breccia nei cuori di una giuria in rosa.
Tra i mattatori della serata un altro film sudamericano: l'uruguagio Gigante, esordio del regista Adrián Biniez, che si porta a casa ben tre premi (due dei quali assegnati ex aequo), il Gran Premio della Giuria, il premio Alfred Bauer per l'innovazione e quello per la migliore opera prima. La delicata storia della guardia giurata che si innamora di una donna delle pulizie osservandola timidamente attraverso le telecamere della security è stato uno dei colpi di fulmine di questa Berlinale, uno dei pochi film che veramente ha messo tutti d'accordo. Un po' più discusso, ma altrettanto valido, il tedesco Alle Anderen (Everyone else) diretto ancora da una regista trentenne, Maren Ade, che racconta una ordinaria relazione tra un uomo e una donna in vacanza in Sardegna ma riesce con grande efficacia a renderci partecipi delle loro difficoltà di coppia grazie soprattutto alla soloidissima interpretazione dell'attrice Birgit Minichmayr (già vista in La caduta, Profumo - Storia di un assassino e nel Cherry Blossoms - Hanami in concorso a Berlino lo scorso anno). La Minichmayr è la quarta attrice tedesca a vincere un Orso per la migliore interpretazione femminile in cinque anni (prima di lei Julia Jentsch per Sophie Scholl, Sandra Hüller per Requiem e Nina Hoss per Yella), una chiara dimostrazione della floridissima nuova generazione d'attori teutonica ma al tempo stesso un dato che fa quantomeno riflettere considerato le polemiche che si accompagnano ogni qualvolta un attore italiano (vedi Silvio Orlando) trionfa a Venezia. L'iraniano About Elly di Asghar Farhadi - altro film molto amato dalla critica - vince un meritatissimo premio per la regia: la storia - dal respiro antonioniano - di un gruppo di amici in vacanza alla ricerca prima di un ragazza scomparsa, e poi del passato e i segreti della stessa, secondo molti avrebbe potuto ispirare anche al premio più prestigioso ma questo Orso d'argento rappresenta comunque già una grande vittoria per una pellicola splendida ma certamente non per tutti i palati.Tra gli altri favoriti l'inglese London River che si deve "accontentare" del premio all'attore Sotigui Kouyaté (che durante la cerimanio della premiazione si è impossesato del microfono per oltre 15 minuti finendo con il raccontare anche tre barzellette) lasciando così a bocca asciutta la straordinaria co-protagonista Brenda Blethyn, mentre la co-produzione Storm - diretta dal regista tedesco Hans-Christian Schmid è completamente esclusa dal palmares. Completano i premi il contributo artistico assegnato a Katalin Varga per l'efficace utilizzo del sonoro (a detta della giuria "spesso dimentichiamo il potere che il suono può avere nel creare atmosfere e conferire originalità ad un film"), la seconda metà del premio Alfred Bauer al polacco Tatarak (Sweet Rush, film poco riuscito in molti aspetti, ma sicuramente affascinante) e la sceneggiatura dello statunitense The Messenger, altro film che si pensava potesse addirittura vincere qualcosa di più. D'altronde il film di Oren Moverman (altro esordiente) è l'unica delle pellicole USA a comparire non solo nella lista dei premiati ma anche tra quelli veramente degni di menzione in un'annata in cui i film americani sono stati in gran numero ma troppo spesso forieri di grandi delusioni. Anche la sezione fuori concorso non ha conquistato consensi quanto sarebbe stato lecito aspettarsi: considerato che il più acclamato è stato The Reader, un film di cui già si era parlato tanto ben prima del festival e che ha diviso e dividerà ancora molto, è facile capire che film come The International o The Private Lives of Pippa Lee, seppure interessanti sulla carta, non sono stati certamente l'evento che gli organizzatori si auguravano. Un successo insperato sono invece state le pellicole a tema musicale a partire dal più riuscito It Might Get Loud, documentario rock sulla chitarra elettrica e su tre celebri chitarristi che ha conquistato la critica e infiammato il pubblico (grazie anche alla presenza in sala di The Edge), ma anche con When You're Strange di Tom DiCillo sulla band The Doors o Soul Power con tantissimo materiale inedito sull'evento musicale Zaire '74 con protagonisti James Brown, B.B. King e perfino un ironico Mohammed Alì che qualche mese dopo avrebbe affrontato George Foreman nel famoso Rumble in The Jungle. Così come per i Rolling Stones di apertura lo scorso anno, la Berlinale sa di poter fare sempre affidamento sul rock, ben più che sui grandi autori cinematografici (vedi Angelopoulos, Tavernier o Costa-Gavras) che ormai, anno dopo anno, festival dopo festival, dimostrano di non poter garantire più qualità. E non è un caso che quest'anno a trionfare siano stati solo i giovanissimi o gli esordienti.