L'uomo della frontiera
Più che una variazione sul tema di Gangs of New York, Il petroliere ne è piuttosto il contraltare. Se non politico, almeno cinematografico. Sbaglia allora chi vede nel nuovo film di Paul Thomas Anderson - che andrebbe digerito e con tempi davvero più lunghi di quanto l'esigenza giornalistica imponga - un classico affresco storico in costume sulla fine di un epoca o sulla "nascita di una nazione" fondata sul sangue. Il minatore che si fece petroliere Daniel Plainview è un uomo del suo tempo, ma non solo. E' soprattutto un uomo duro, scaltro, violento, senza Dio, incapace di non odiare e profondamente competitivo. Farne la metafora dello spirito di una nazione o della corruzione e dello sfruttamento è il risultato di una lettura storica legittimata dalla collocazione temporale, ma non dimostrata dalla lettura del film. Perché nonostante la funerea personalità di Daniel, il suo spirito capitalista, la sua natura darwinista e la sua lotta all'opportunismo religioso, troppo rare e troppo indecise sono le tracce di una volontà storico-descrittiva nel film di Anderson per sottoscrivere questa ipotesi. La storia è lì, ovvio, ma sullo sfondo. Con tutta la sua invadenza ineliminabile questo è logico. Ma non è il tema del contendere: non è questo che anima le intenzioni di Anderson. Il petroliere non racconta un'epopea in costume sul passaggio alla modernità; è necessario ribadirlo. D'altronde sotto questo aspetto il film di Anderson ha davvero ben poco da dire e soprattutto niente di nuovo, anche perché prende l'ispirazione da un romanzo di Upton Sinclair del 1927 che è opera impressionistica dal sapore antropologico più che socio-economico. Il petroliere racconta allora l'inferno personale di un uomo che non ha un passato e non ha un futuro e attraversa il tempo solo e incapace di vivere nel mondo con gli altri.
Basterebbe il bellissimo incipit, denso e vigoroso, a dimostrare che il film vuole raccontare l'epos di un uomo piuttosto che di una nazione. Siamo nel 1898 e Daniel è solo, chiuso in uno scavo della selvaggia California, intento a trovare pietre d'argento con tutti i mezzi e l'ingegno di cui dispone. Improvvisamente e incidentalmente dal terreno emerge del petrolio, la cui scoperta oltre a cambiargli la vita gli costerà la deambulazione. La prima ellisse ci trasporta avanti nel tempo di pochi anni, all'inizio del novecento e delle fortune petrolifere di Daniel e di suo figlio H.W., ancora in fasce. Neanche è finito il primo "atto" del film che è chiaro che Anderson non può e non vuole affrancarsi dal suo uomo che aleggia, anche nelle rarissime scene in cui è assente dalla scena, con la sua fisicità e il suo sguardo magnetico e minaccioso. La presenza di quello che - hic et nunc - è il più grande attore vivente sotto questo aspetto fa il resto. Daniel Day-Lewis è un corpo calamita di sentimenti tesi e oscuri. La sua aderenza a un personaggio complesso, contraddittorio, affascinante e manipolatore supera ogni immaginazione. La sua interpretazione, supportata dalla frontalità sorprendente della messa in scena e dalla straordinaria colonna sonora composta da Jonny Greenwood creano un'indomabile tensione sotterranea, di cui si fa fatica a liberarsi perfino ore dopo la visione.
E' ovvio che non è più tempo di cinema post-moderno per Anderson (e per chiunque altro, fratelli Coen inclusi), non c'è più spazio per il virtuosismo di Magnolia o per i giochi cromatici e le ellissi acrobatiche di Ubriaco d'amore. Il miglior cinema americano sembra inequivocabilmente tornare indietro nel tempo e Anderson si adegua portando in dote la sua innata abilità narrativa e uno sguardo che lascia il segno. Eppure c'è qualcosa che distanzia Il petroliere dall'opera pienamente compiuta e le prime avvisaglie si scorgono nella parte centrale, quando, dopo aver avviato l'attività a Little Boston, il personaggio di Daniel si fa progressivamente più oscuro, senza un fuori campo sufficiente a giustificarne adeguatamente il percorso psicologico. Dall'abbandono del figlio divenuto sordo, al violento contrasto con il predicatore Eli, fino all'uccisione dell'impostore che si spacciava per suo fratello, la discesa verso gli inferi di Daniel dimostra che a Anderson manca ancora un umanesimo spontaneo, capace di fare volare il suo cinema in territori emotivi meno saturi. Si arriva così al durissimo epilogo emotivamente un po' sazi e si ha la sensazione che regista e attore siano usciti fuori controllo. E' probabilmente per questo che ci si libera con meno fatica degli ultimi minuti, che dovrebbero essere i più indigesti, rispetto ai numerosi picchi precedenti, generosamente disseminati nella storia.