L'ultimo stereotipo
L'ultimo bacio, ovvero "come ritrarre l'Italia e gli italiani, volgendo lo sguardo oltre l'oceano, ed avere un successo clamoroso". Sembra il titolo di uno dei tanti manuali che affollano le librerie, e nei quali si possono trovare risposte a quesiti professionali-esistenziali-emotivi ed altro ancora, in realtà questo film di Gabriele Muccino altro non rappresenta che un fenomeno tipico del cinema italiano. Naturalmente non mi riferisco al cinema italiano di Visconti, Pasolini, Fellini e tanti altri, ma al cinema italiota confezionato per accontentare la larga fascia di pubblico già anestetizzata dalle produzioni televisive e quindi pronta a immedesimarsi in un film che non gli appartiene dal punto di vista sociale, che espone delle problematiche reali, ma immerse in un contesto melassoso e chiassoso assieme, a metà tra lo spot pubblicitario e il talk show di quattro soldi, uno di quelli nei quali si pretende di raccontare delle storie di vita, spacciandole per vere.
Muccino adotta tecniche di ripresa insolite per il nostro cinema, ma assolutamente di tendenza nel contesto cinematografico d'oltreoceano, e si muove in maniera veloce tra diverse storie e diversi personaggi tratteggiati nel modo eccessivo e grossolano tipico di certe fiction nostrane ricalcate sul modello di quelle americane: non c'è alcun approfondimento dei personaggi, non c'è introspezione, non c'è assolutamente nulla: Muccino pretende di "gonfiare" un film assolutamente vuoto, con le urla dei protagonisti e con certi dubbi amorosi ed esistenziali che sembrano ritagliati dalle riviste femminili. I personaggi sono soltanto banali sagome da soap-opera nei quali lo spettatore più ingenuo cerca forzatamente di entrare pur di sfuggire alla realtà e aggrappandovisi furiosamente all'illusione di averla affrontata. E le "sagome" sono predisposte in modo tale da offrire appigli a tutti; e il primo di queste sagome da fiction è il tanto celebrato Stefano Accorsi, che si propone come trentenne professionalmente arrivato - ma ne esistono? - che in questo film, altro non fa che offrire alle ammiratrici sorrisi finti e sguardi lanciati al soffitto, mentre è disteso a torso nudo sul letto. E nient'altro. Ma almeno i suoi sorrisi e gli sguardi persi nel vuoto sono pause rigeneranti posizionate strategicamente tra le urla di Giovanna Mezzogiorno e Sabrina Impacciatore che si propongono come figure femminili assolutamente offensive, incapaci di gestire la propria esistenza, e che gridano continuamente cercando di spacciare la frustrazione per reazione, per femminismo da salotto: un balsamo per le coscienze di quelle che "con voi uomini così si deve fare, ben vi sta". Gridano anche Martina Stella - in un modo e con un'espressione che non sembrano appartenerle - e Stefania Sandrelli quasi imbarazzante nel modo in cui cerca di interpretare una donna che si lascia alle spalle la giovinezza. Queste sono le sagome principali, ma Muccino cerca di accattivarsi altri target, ed infila nel suo calderone anche un giovane alternativo con le treccine rasta e dedito alle droghe leggere, un trentenne che vorrebbe mollare tutto e partire, per dimenticare la sua ex che - in modo del tutto prevedibile, come nelle soap opera - sta con un biondino prestante, ma insipido.
E come in tutte le sceneggiate, alla fine, dopo le urla, un incidente di macchina, minacce con coltelli da cucina, pianti, l'improvvisata della Sandrelli nello studio del marito psicanalista e i tradimenti scoperti dalla Mezzogiorno durante una veglia funebre, arriva la morale finale: tutto può sistemarsi se ci si conforma a modelli socialmente innocui, sembra quasi di assistere ad una Pubblicità Progresso infarcita di frasette edificanti, quando nel finale Muccino strappa via da Trainspotting lo splendido discorso conclusivo e lo appiccica con la melassa al suo film travisandone oscenamente il significato e facendone un inno alla normalità sintetica da spot pubblicitario. E gli spettatori più ingenui possono stare tranquilli, chiusi al calduccio in quest'ultimo, falso stereotipo.
Movieplayer.it
2.0/5