L'ultimo dei pagani
Scelta indubbiamente audace, quella di Claudio Bondì: girare un film per riprodurre cinematograficamente un'opera semi-sconosciuta come il "De reditu suo", poemetto in versi (distici elegiaci) basato sulla tematica del viaggio. Un viaggio del tutto particolare: né di sola andata né "alla ricerca di", bensì il ritorno di un esule, lontano mille miglia dai vari nostoi omerici e quant'altro. In De reditu - Il ritorno non ci sono eroi, non ci sono grandiose imprese, non c'è la Roma tutta fasto e grandiosità che siamo abituati a vedere sul grande schermo. Ci sono piuttosto scogli, spiagge, boschi, tanto mare e... pietre.
Questa è la scenografia che sceglie il regista, in cerca di maggior naturalezza e minor spesa possibili: "non importa che le pietre siano effettivamente del V secolo (...) ciò che conta è che siano vere", all'insegna dell'abolizione di qualsiasi solenne (e costosa!) ricostruzione.
Ed è fra questi ruderi più o meno antichi che fluttuano le vesti dei personaggi namaziani, figure femminili di facile conquista, uomini stoici che si tolgono la vita nella vasca da bagno, gladiatori che combattono in fosse con le loro armi ormai traballanti. Non c'è più alcuna certezza: i valori sono crollati, dopo essersi sgretolati a poco a poco come le mura del politeismo, ormai quasi totalmente sconfitto - mentre aumenta il numero di religiosi come monaci e giudei, due "razze" contro le quali si scaglia tutto il paganesimo di Namaziano (vd. le due invettive davanti alle isole di Capraia e Gorgona).
Per capire fino in fondo il film, pretenziosamente colto, bisogna conoscere un minimo la storia dell'autore galllico, che, trasferitosi a Roma allo scopo di ultimare la propria formazione e di ricoprire in seguito cariche del calibro di magister officiorum e di praefectus Urbi, si sente in dovere di ritornare in patria in seguito alle devastazioni barbariche, che già avevano lasciato un vistoso segno nella capitale grazie ad Alarico. Bondì scandisce l'iter rutiliano, rigorosamente marittimo per ovvi motivi, tappa per tappa, giorno dopo giorno, dalle coste laziali fino in Gallia.
Il merito da riconoscere al regista è sicuramente quello di aver riportato alla luce una delle opere latine generalmente considerate "minori" e per questo ingiustificatamente sottratte alla fama letteraria; tuttavia, il materiale a cui ha potuto attingere è oggettivamente un po' pochino (soli due libri, di cui uno -il secondo- di appena 68 versi!) per dilatarlo in un'ora e mezzo circa di pellicola.
Il risultato è presto immaginabile: la telecamera agonizza col suo respiro affannato al ritmo stesso dei battiti dei remi sulle onde, accompagnata da un sottofondo musicale da nenia. La fissità delle riprese è disarmante: ottima la fotografia, questo senza dubbio, degna però del miglior servizio di National Geographic, tutt'al più. E veniamo agli attori, capeggiati dal protagonista Elia Shilton; benché, horresco referens, tutti battezzati sull'istrionico palcoscenico, un po' per il linguaggio classicheggiante, un po' per mancanza di espressività o per battute troppo impostate, rimangono inevitabilmente ingessati anche loro, fissi in quel paesaggio sempre uguale.
Salva la pellicola giusto la magistrale interpretazione di Roberto Herlitzka, che ancora una volta muore dopo aver estasiato il pubblico con la sua impeccabile abilità professionale. La scena del suicidio merita il podio, senza discussioni: la tela bianca sulla vasca ricopre la fine della vita, così come la vela bianca sulla nave la fine del viaggio. A proposito di finale, l'ho guardato nella speranza di scovare finalmente un guizzo di originalità; e invece nihil sub sole novum anche qui: come nelle migliori telenovele, primo piano sul volto del reduce. Sarà che Bondì è un regista televisivo...