Tratto dal romanzo scritto nel 1975 da Imre Kertesz, premio Nobel per la Letteratura nel 2002, Senza destino è la storia del piccolo Gyuri, un ebreo ungherese alle prese con l'orrore dei campi di concentramento. A portare sul grande schermo questo nuovo, drammatico racconto sull'Olocausto è Lajos Koltai, lo storico direttore della fotografia di Istvan Szabo e di Giuseppe Tornatore, al suo primo film da regista. Perché portare ancora una volta al cinema la pagina più vergognosa della Storia recente? Ce lo spiegano lo stesso regista, il protagonista Marcell Nagy ed un commosso Ennio Morricone, autore della colonna sonora.
Signor Koltai, cosa differenzia il suo film rispetto a quelli già realizzati sull'argomento? Lajos Koltai: La base di tutto il film è il romanzo di Imre Kertesz che mi è capitato di leggere nel 2000 e che mi ha colpito molto, soprattutto per il nuovo linguaggio col quale è scritto. Leggendo il libro ho cominciato subito a visualizzarne dentro di me le immagini e quando ciò accade è molto pericoloso, perché mi viene voglia di tirarne fuori un film e allora nessuno ancora mi aveva chiesto di farlo. Poi, ho incontrato lo scrittore perché ero curioso di sapere di più del testo. Alla fine del nostro primo incontro mi ha dato una stesura provvisoria della sceneggiatura del film, scritta insieme a Gyorgy Spiro, un altro autore ungherese. Kertesz durante i nostri incontri mi chiedeva come avrei fatto a realizzare un film da un romanzo così lineare, senza climax. Effettivamente, da un punto di vista cinematografico è difficile fare a meno di sovrapposizioni, rimandi, e scene con una forte carica emotiva, ma ero pronto ad accettare questa sfida e così è nato il film. Rispetto agli altri film che hanno raccontato l'Olocausto, il nostro sposa un punto di vista diverso: non procediamo dal di fuori verso l'interno, ma succede esattamente il contrario. Abbiamo cercato di capire le trasformazioni che un uomo vive all'interno di un campo di concentramento e ci siamo situati proprio in quella fessura all'interno del suo animo dalla quale egli guarda il mondo esterno. Inoltre, abbiamo cercato di evitare di incorrere in due errori. Il primo era quello di percorrere la strada del sentimentalismo, che è il pericolo più grande in tutte le rappresentazioni dell'Olocausto. Questa è la storia di un uomo che per caso percorre questa strada. Scendendo dall'autobus che lo sta portando al lavoro, il suo destino cambia e comincia a vivere un destino che non gli appartiene. E' ciò che noi chiamiamo "senza destino". L'altro errore che non volevamo fare era il fatto che spesso nei film non si vede il tempo che passa. In questi processi di disfacimento, invece, sono importanti gli attimi, i momenti, perché hanno sempre delle conseguenze nel proseguo della storia e quindi è essenziale dar conto del tempo trascorso. Infine, non volevamo escludere la natura dal film. Queste persone confinate nei campi di concentramento hanno combattuto anche con gli elementi stessi perché la natura non sa distinguere, i raggi del sole arrivano sia davanti che dietro il filo spinato. La natura non sa, non distingue. Alla fine il protagonista parlerà di una certa ora del giorno che per lui rappresenta la felicità. Quello che egli cerca di fare è dare una cornice di bellezza alle immagini di ciò che ha vissuto, conservare i momenti belli di quanto gli è accaduto, non solo l'orrore. Riuscire a vedere qualcosa di bello l'ha aiutato a vivere tre giorni in più. In questo film c'è anche la bellezza, la poesia, all'interno dell'orrore ed è proprio il contrasto tra queste due sensazioni a sottolineare ancora più intensamente la tragedia dell'orrore.
Lei ha affermato che il messaggio del film è che a chiunque di noi può accadere qualsiasi cosa. Secondo lei, anche la Storia è legata alla casualità? Lajos Koltai: Penso che tante cose succedano per una pura casualità, mentre invece i grandi processi storici che hanno cambiato il nostro mondo sono stati pianificati, calcolati. Il mondo sta andando in una direzione sbagliata e purtroppo non riesco ad immaginare che il mondo cambi per caso. Il messaggio del film è quello di cercare una via di sopravvivenza, come fa il protagonista cercando di capire di volta in volta quello che gli accade.
Alla fine del film Gyuri, il protagonista sopravvissuto ai campi di concentramento, esprime la sua perplessità nei confronti della propria religione. La sua visione del finale del film corrisponde a quella che aveva immaginato leggendo il romanzo per la prima volta? Lajos Koltai: La parte finale del film è una critica compresa nel libro. Gli ebrei che Gyuri incontra al suo arrivo a Budapest parlano sempre del comune destino ebreo, ma l'unico che ha vissuto quel destino è lui, il protagonista. Ci sono stati molti ebrei che sono rimasti nella capitale perché le deportazioni sono cominciate dalle province e questo processo di deportazioni si è arrestato dopo aver interessato Budapest e molti ebrei sono rimasti nella capitale. Gyuri non può provare felicità e quindi non gli resta che l'odio verso quella città che non ha fatto niente per evitare le deportazioni. Nell'arco di un anno è diventato saggio e ora è arrivato il momento di chiedersi se le cose potevano andare diversamente, se non sarebbe stato sufficiente fare una piccola cosa per cambiare il corso degli eventi.
Signor Morricone, come ha composto le musiche del film? Ennio Morricone: Sarebbe stato fin troppo semplice per me comporre una musica dissonante, piena di traumatizzazioni timbriche, che commentasse la drammaticità dell'opera, ma ho voluto dare più senso alla pietas, al dolore e all'umanità e penso di esserci riuscito. Non sono solito parlare in termini entusiastici delle musiche che ho composto nella mia carriera, ma in questo caso sono totalmente soddisfatto del risultato.
Cosa pensa del film? Ennio Morricone: Sono stato emozionato dal libro, ma il film l'ho amato ancora di più ed ho apprezzato molto la scelta di raccontare un tema simile senza enfasi. Ritengo questo film uno dei più belli che ho mai visto, non solo nell'ambito dei film sull'Olocausto, ma nell'intera produzione mondiale.
Koltai, com'è stato lavorare col maestro Morricone? Lajos Koltai: Questo è il mio primo film da regista, ma ho fatto più di settanta film come direttore della fotografia e non mi era mai capitato di lavorare con un compositore che entrasse così totalmente dentro un film. Morricone mi ha costretto a raccontargli le immagini del film dal punto di vista musicale e quando si è messo al pianoforte ho sentito che qualcosa era già pronto, già fatto. Lui si è rivolto a me, ha alzato un dito e mi ha detto: "Non so ancora quale sarà la musica giusta per il film, ma suonerò qualcosa che sento dal profondo". Inutile dire che quando ha cominciato a suonare è stato qualcosa di fantastico.
Marcell Nagy, come si è accostato a questo difficile ruolo? Marcell Nagy: Dal punto di vista emotivo della realizzazione del lavoro la cosa fondamentale è stato il mio rapporto con Lajos, ma sono state importanti per me anche l'atmosfera che si era creata con tutti gli altri attori e le magnifiche ricostruzioni scenografiche. Quello che si vede nel film, i campi di concentramento, non sono il frutto di effetti computerizzati, ma scenografie effettivamente costruite e quando uno si trova all'interno di set di queste dimensioni, con altre centinaia di persone sporche, svestite e tremanti, la suggestione è tanta.
Il suo personaggio alla fine del film si chiede se c'era una possibilità di scelta del proprio destino. Come risponderebbe lei a questa domanda? Marcell Nagy: La possibilità che forse le cose potevano andare diversamente c'era perché c'era tempo. E' stato tutto un susseguirsi di casualità: il protagonista del film si è trovato a vivere il destino di qualcun altro. E' quell'essere senza destino che ha condotto tutto il film.