Distribuito da Istituto Luce nelle città capozona, Vedi Napoli e poi muori racconta in forma di docufilm la Napoli di oggi, quella insanguinata dalle battaglie interne della camorra e strozzata dalla sua mano che sembra aver sostituito l'ombra del Vesuvio. Chi ha paura di Napoli? Come si può parlare della camorra, portarla al cinema, senza paura di ripercussioni? A parlarcene sono il regista e autore Enrico Caria e il suo braccio destro Felice Farina, che del film si è occupato di produzione, montaggio e videocompositing, oltre al supporto morale per un progetto non privo di rischi.
Enrico Caria, lei nel film parla di un argomento molto scottante a Napoli come la camorra. Nel mettere insieme questo film si è in qualche modo auto-censurato per timore di ripercussioni?
Enrico Caria: Già da qualche anno, bazzicando l'Osservatorio di camorra, presieduto da Amato Lamberti, mi sono reso conto che succedevano cose strane a Napoli. Per esempio l'omicidio di Giancarlo Siani, il giovane giornalista precario di Torre Annunziata ucciso per mano della camorra nel settembre del 1985. Perché fu ucciso Siani? Perché era un ragazzo giovane e ingenuo ed ebbe l'ardire di mettere in ballo cose inedite e pesanti che misero in crisi i boss della camorra. Siani corrispondeva con Il Mattino, il giornale più importante di Napoli, che se da una parte accolse in pieno la sua intraprendenza, dall'altra, dopo la sua morte, ha fatto spreco, disinteressandosene, della sua eredità. Poi c'è il caso Roberto Saviano che è particolare. Saviano ha scritto un libro meraviglioso, Gomorra, nel quale però non dice nulla che già non si sappia, ma, da grande scrittore qual è, è riuscito a dare un affresco formidabile dell'impero economico della camorra, che ha sconvolto l'Italia. Il suo unico errore è stato tenere una conferenza stampa a Casal di Principe, uno dei fortini della malavita, perché è andato a dire in faccia ai protagonisti del suo libro che la gente è stufa di loro. E' stata una sfida culturale questa che l'ha messo a rischio e ora infatti vive sotto scorta. Nel girare questo film non ci siamo posti il problema di auto-censurarci. Ci sono dei bip nel film, ma sono solo delle provocazioni. Per esempio, nelle interviste a Saviano vengono "bippati" nomi di camorristi che sono in galera e che già tutti conoscono. Noi eravamo interessati a cercare i vari punti di vista sulla questione culturale. Il problema è che a Napoli il lavoro c'è pure, ma non è pulito e, come dice un operaio di Bagnoli durante il film, se manca la cultura del lavoro il lavoro non c'è e la camorra può espandersi. Quando è venuta meno la fabbrica di Bagnoli la criminalità si è andata sviluppandosi a dismisura.
Andrebbe a far vedere il suo documentario nei posti a rischio, come ha fatto Saviano col suo libro?
Enrico Caria: A volte parlare di un mostro con più teste può addirittura incrementarne la vanità, ma non parlarne significa la morte. Se loro sono felici di finire sui giornali o al cinema come pessimi soggetti io non ci posso fare niente. Poi c'è la qualità da una parte di chi parla e dall'altra di chi ascolta. Cerco di non pormi il problema. In questi anni a Napoli è successo di tutto: prima la guerra di Cutolo, poi lo scudetto del Napoli con Maradona che ci ha ridato l'orgoglio, poi il sindaco Bassolino che, per quanto se ne dica, ha fatto tanto per la città e ha ridato vigore al turismo. Il dibattito su quanto faccia bene parlare delle cose negative è sicuramente controverso. Pensiamo però all'inchiesta dell'Espresso sugli ospedali. Da quando se ne parla stanno pulendo tutti gli ospedali d'Italia. C'è però un episodio che mi ha sorpreso. Ho un'amica che insegna a Scampia, in una scuola media, quella più difficile perché è la scuola dell'obbligo, la linea d'ombra dove le culture si scontrano: da una parte quella della criminalità e dall'altra quella del bene. Nella sua classe ci sono venticinque bambini praticamente succubi di cinque figli di boss che si atteggiano già come i padri. Lei mi ha detto che se riuscirà a portare anche solo due dei suoi alunni al liceo avrà vinto. La cosa inquietante è che quando le ho chiesto se, dopo la guerra di dieci anni di Scampia e l'arrivo dello Stato, nella sua classe fosse cambiato qualcosa rispetto a quando si parlava di quello che stava accadendo in quelle zone, dopo tutta l'iper-esposizione dei fatti legati a quei luoghi, lei mi ha detto che la notizia da sola rafforza i figli dei boss per il solo fatto che Scampia sta in prima pagina, indipendentemente dall'esempio negativo che ne viene fuori.
Nel film lei intervista un parroco che ha realizzato un presepe molto particolare. Cosa può dirci al riguardo?
Enrico Caria: A differenza dei parroci anti-camorra, Don Vittorio Siciliani non vive sotto scorta, non è dovuto andare via dal suo quartiere, perché ha deciso di fare una cosa diversa, di lisciare il pelo per il suo verso, grazie ad un cinismo minimalista. Lui nel film dice: "è normale che ci sia lo spaccio, nessuno può credere realmente che sia possibile eliminarlo, solo che non deve essere così spettacolare", riferendosi ai tossicodipendenti in fila a Scampia per acquistare la droga, bastonati dagli spacciatori per farli stare in piedi. Don Vittorio è un parroco molto coraggioso, che nega i sacramenti ai criminali, ma è anche un tipo realista. Il presepe che ha fatto nella sua chiesa ci ha colpito molto perché in esso ha inserito i mali del suo quartiere, dividendolo in tre spicchi: il presepe normale, i palazzoni di Scampia con drogati, spacciatori, ecc e la Scampia come dovrebbe essere, con i palazzi più bassi e con tanto verde. Il suo presepe è finito anche nei telegiornali ed ha rappresentato una sorta di bottarella, un lavoro sul culturale.
Com'è stato l'esperimento produttivo di questo film?
Enrico Caria: Il film è costato poco perché tanti amici mi hanno regalato il proprio lavoro. Per esempio Luca Ralli, un pubblicitario, che usa questa tecnica dell'animatic, una sorta di storyboard con Photoshop e Flash grazie ai quali vengono animati alcuni elementi disegnati. Delle cose le ha disegnate lui, altre io, e poi ci sono i disegni dei bambini che lui ha mosso.
Felice Farina: La storia produttiva di questo documentario è lunghissima. Parte da un'idea di Enrico che risale ai tempi dello scudetto del Napoli. Il film è stato realizzato grazie a filmati di quei tempi realizzati dallo stesso Enrico con una telecamerina e più il film andava avanti più ci armavamo di telecamere più professionali. Poi ci sono i disegni raccolti da questa maestra sul campo che ce ne ha regalati a centinaia e che rappresentano una testimonianza importantissima. Siamo stati profondamente scossi da questi disegni di pistole e omicidi da parte di bambini di otto anni.
Qual è la strategia di distribuzione del film?
Enrico Caria: Andavo a Napoli e sui giornali locali trovavo cronache di morti ammazzati ogni giorno, mentre a Roma sui giornali si parlava soltanto del Rinascimento di Napoli dovuto al sindaco Bassolino. Volevo perciò che il mio film fosse visto da più persone possibili, senza essere costretto a passare per forza per la televisione. All'inizio avevo in mente di puntare all'home video, di far uscire il film in dvd accompagnato da un libro. Poi l'editore ha deciso che si poteva puntare anche sulle edicole, ma prima bisognava uscire in sala. Con questa distribuzione puntiamo a una grande visibilità.
Felice Farina: Sono sorpreso di vedere questo film distribuito, per quanto in poche copie, in tutta Italia. E' una cosa che mi soddisfa e mi stimola. La nostra è un'avventura cominciata quattro anni fa al cinema Quattro fontane di Roma, quando io ed Enrico Caria vedemmo Bowling a Columbine di Michael Moore, un regista che amiamo molto perché col suo modo di fare cinema ci ha aperto gli occhi e la mente e ci ha dato lo stimolo per realizzare il nostro film.
Perché in Italia c'è questo ritrovato interesse per i documentari?
Enrico Caria: Questo boom dei documentari nasce perché c'è stato un cambiamento nell'industria cinematografica italiana, col taglio dei fondi da parte del governo. Penso ci sia stato un appiattimento che ha spinto solo il cinema commerciale. Grazie a nuove tecniche, come il digitale, oggi è possibile fare un cinema diverso e il documentario ne ha giovato tantissimo.