L'eternità di Dostoevskij
Alle spalle di un film straordinario come I fratelli Karamazov vi è un lavoro lunghissimo, meticoloso e che, per certi aspetti, ha del miracoloso. Da un lato vi è l'adattamento teatrale del romanzo di Dostoevskij, che nasce negli anni Settanta per mano di Evald Schorm - uno degli esponenti della Nová vlna cecoslovacca - e che viene poi ritoccato da diversi drammaturghi; dall'altro vi è la possibilità per un gruppo di attori, tutti sconosciuti da noi (Ivan Trojan, Igor Chmela, Martin Mysicka, David Novotny, ecc.), di lavorare su questo testo da ben dodici anni e quindi di poterlo maneggiare con maestria, come una seconda pelle. Depositario del testo e artefice della messinscena prima teatrale e poi cinematografica è il drammaturgo e regista ceco Petr Zelenka che realizza così sia un film perfettamente nel solco della tradizione del suo paese, sia una rilettura contemporanea e viva di uno dei grandi capolavori della letteratura russa. E, decisamente, va ringraziata Distribuzione Indipendente per aver portato il film in Italia, a partire dal 27 marzo, sia pur a sei anni dalla sua realizzazione.
L'attore al centro della scena
Un esperimento cinematografico come quello di I fratelli Karamazov riesce giustamente a enfatizzare quella che è stata definita la caratteristica polifonica dei romanzi di Dostoevskij, la qualità cioè di dar voce con un'intensità insuperata a ciascuno dei differenti personaggi descritti dal romanziere russo, ognuno portatore di una differente visione del mondo. E, se vogliamo, questa caratteristica, prima ancora che cinematografica, è assolutamente teatrale. Dunque, l'adattamento di Zelenka invece di misurarsi con le questioni filosofiche e religiose al centro della poetica dostoevskijana (e culminanti con il racconto del Grande Inquisitore, qui non a caso assente), mette al centro gli "umani troppo umani" protagonisti della vicenda, dal padre Fedor, ai tre figli, al figliastro Smerdjakov e sposta perciò il discorso sulla recitazione stessa, sull'atto del recitare, sulla violenza brutale e il sudore dell'essere in scena, sul confronto e scontro mai sanato e mai sanabile tra diversi character. Il teatro, la vita
Ma il teatro, come sempre accade in questi casi, si intreccia in maniera inesorabile con la vita. La grande idea di Zelenka è stata per l'appunto quella di mettere in scena il teatro stesso, in modo non troppo dissimile da quanto fece Louis Malle con Vanya sulla 42esima strada. I protagonisti dunque sono i vari attori che partono da Praga per andare a Cracovia in Polonia, a un festival che ha per scenografia una gigantesca acciaieria, un tempo modello dell'industrializzazione sovietica e oggi sorta di rovina, in cui si aggirano ancora pochi operai, simili a dei fantasmi. Qui gli attori devono provare in vista della prima che si terrà il giorno successivo. Tra i vari operai emerge la storia di uno di loro, il cui figlio piccolo è caduto pochi giorni prima ed è in ospedale in fin di vita. Ma l'operaio pare sempre più rapito dalle prove degli attori e come dimentico del dramma del figlio, per una sorta di sospensione della vita nel momento della rappresentazione. Un dualismo drammatico di cui si rendono conto gli stessi attori - che finiscono dietro le quinte per replicare gli stessi rapporti di potere che hanno sulla scena - e con cui alla fine dovranno fare i conti. L'ex blocco sovietico
Il paesaggio industriale, però, si capisce ben presto come sia strumento per un altro discorso che scorre in maniera ora sotterranea, ora meno, nel corso della visione del film. Nowa Huta è il quartiere di Cracovia in cui sorge l'enorme acciaieria in cui è ambientato I fratelli Karamazov. Sorta negli anni '50, essa doveva essere il simbolo dell'industrializzazione del blocco sovietico, ma era anche un tentativo - come si dice nel film - volto a ridurre al silenzio la grande tradizione intellettuale di Cracovia. Lo scopo per l'appunto era quello di "invadere" la città di operai, degli "uomini-macchina" che potessero con la loro presenza annullare la vita culturale della città polacca. Ecco perciò che con il gesto di portare I fratelli Karamazov in un luogo tanto simbolico, Zelenka ci vuole dire anche questo: un tardivo, quanto inesorabile e necessario, ritorno al centro della scena da parte della cultura, una sua vittoria sulla tecnologia.
Hard to Be a God
Per più di un motivo, oltre a Vanya sulla 42esima strada, I fratelli Karamazov ricorda anche l'ultimo capolavoro di Aleksei German, Hard to Be a God, visto al Festival di Roma dello scorso anno. Anche lì vi era un discorso sugli intellettuali che nel mondo medievale e futuristico immaginato da German venivano eliminati. Vi era inoltre, come nel film di Zelenka, un lavoro lunghissimo alle spalle, di decenni, non solo sulla messinscena ma anche sulla recitazione. E se I fratelli Karamazov non arriva a toccare le vette artistiche del film di German, è comunque possibile accomunare questi film come due esempi straordinari di lavoro sul cinema (ma anche sul teatro e sull'arte in genere) che hanno avuto bisogno di tempo per poter raggiungere questo stadio di perfezione. Un tempo e una fiducia nel gesto dell'artista che bisognerebbe avere il coraggio di riscoprire anche da noi.
Movieplayer.it
4.0/5