Il motivo per cui molte recensioni di The Escape Artist sono negative è perché sono limitate alla visione del primo episodio, oppure non tengono conto della sua ragion d'essere. La miniserie - N.B.: aspettatevi degli spoiler, questa volta è inevitabile - di BBC con David Tennant è un trittico, le prime due puntate sono il pretesto alla terza: è impossibile apprezzare, senza irritarsi, la sceneggiatura di David Wolstencroft se non la si contempla nella sua interezza.
Will Burton è un avvocato difensore invincibile: non ha mai perso una causa e anche il suo ultimo caso si risolve in una vittoria. Il suo cliente più recente è Liam Foyle, trentenne processato per l'omicidio di una donna. Burton è abbastanza sicuro - certamente non si è interrogato a lungo - che non sia stato Foyle a torturare e ammazzare la vittima, e riesce a scagionarlo. L'ennesimo trionfo, l'ennesima fitta al cuore per la collega Maggie Gardner - abile ma sempre messa in ombra dal collega -, l'ennesimo ritorno a casa vittorioso - una casa immensa nel centro di Londra - da una moglie meravigliosa con l'accento scozzese.
Wolstencroft istiga lo spettatore a negarsi l'empatia con quest'uomo che ha tutto - talento, fascino, ricchezza e amore -, mentre per Burton ha in serbo un contrappasso da dispensare tutto in una volta. Il legale si sente a un passo dall'ambito "silk", cioè dal diventare avvocato della Corona, ma poco prima della consacrazione perde tutto, scontando una leggerezza imperdonabile: non essersi soffermato a interrogarsi veramente sulla colpevolezza di Foyle. L'ex cliente se l'è presa quando l'inconscio del suo difensore gli ha impedito di stringergli la mano, e lo ha ripagato sgozzandogli la moglie. Lo ha anche beffato, facendosi riconoscere sul luogo del delitto, la casa meravigliosa simbolo del successo di Burton che ricorda tanti altri perfetti e asettici appartamenti destinati a finire imbrattati di sangue. Il primo episodio è un legal con una svolta thriller; preso da solo sembra inutile, fastidioso e carente dal punto di vista della verosimiglianza giuridica, mentre va considerato per quello che è, un'esca per lo spettatore istigato all'inizio a invidiare il protagonista e indotto, alla fine, a tifare per lui e per la giustizia.
Il secondo episodio mette in scena il processo a Foyle per l'omicidio della moglie di Burton, Kate (la Ashley Jensen di Ugly Betty). L'accusato è difeso da Maggie, la quale usa il pretesto che ognuno abbia diritto a una difesa come un'armatura, ma in realtà è accecata dall'ambizione e dal desiderio di rivalsa nei confronti del collega. Foyle è palesemente un serial killer sociopatico; ha la passione per gli uccelli - ma la telecamera li riprende some fossero insetti, con un ronzio di sottofondo da accapponare la pelle - e un blando talento per la manipolazione - è riuscito a soggiogare una scialba zitella masochista per fornirsi un alibi. Ovviamente, la farà franca di nuovo, in barba alla verosimiglianza narrativa e a Burton, tradito da colei in cui ha creduto tutta la vita e che lo ha reso un vincente: la legge. La seconda parte è un thriller e un dramma, incentrato sulla completa perdita di controllo di un uomo che il controllo lo ha sempre, sulla sua disperazione e sul terrore che si prova ad avere a che fare con uno stalker omicida. Questo episodio fa paura: attingendo alla paranoia dello spettatore Wolstencroft, creatore del longevo spy drama Spooks, dimostra quanto sia facile per lui manipolare lo spettatore e piegarlo allo stato d'animo desiderato. Ha dalla sua un protagonista eccelso, l'aquilino David Tennant, attore che si accanisce nell'accettare ruoli drammatici nonostante il genio comico, ma che è comunque bravissimo. Nei panni di Foyle c'è Toby Kebbell - era il mago alla Criss Angel di L'apprendista stregone - che si diverte tantissimo a fare il giovane Lecter (e gli viene abbastanza bene).
L'ultima parte del trittico mette a fuoco tutto: The Escape Artist è una revenge play che mira al medesimo scopo delle antenate elisabettiane: il piacere vicario dello spettatore. Machiavellica, diabolica e dall'atmosfera alla nordic noir che piace tanto agli inglesi e strizza l'occhio a Broadchurch, la terza puntata sposta l'azione nella campagna scozzese, dove Burton raggiunge Foyle mostrando l'intenzione di estorcergli una confessione, e durante la quale prova a salvarlo, inutilmente, da uno shock anafilattico. Anche il suo processo si conclude con un'assoluzione nei confronti di quello che sembra il delitto perfetto: c'è un motivo più che fondato per cui Burton ha la nomea dell'artista della fuga. The Escape Artist è un divertissement dell'autore e una caccia al tesoro per lo spettatore: è inutile pretendere più aderenza alla realtà - sistema giuridico, indagini poliziesche, procedure mediche, addirittura personaggi ne fanno difetto - la miniserie esiste in funzione dell'intrattenimento: Wolstencroft gioca con il pubblico, ne incita emozioni e opinioni, lo conduce su per un sentiero lungo uno strapiombo che non offre percorsi alternativi. Fino alla meta, dove lo aspetta la risoluzione di una vendetta ingegnosa e metodica. The Escape Artist, revenge tragedy contemporanea, è un gradevole - e morboso - intrattenimento per adulti concepito per un piacere colpevole: quello dello sceneggiatore marlowiano autocompiaciuto, e dello spettatore gratificato - anche se sa che non dovrebbe - dall'appagamento vicario di una vittoria clamorosa e sbagliata contro l'ingiustizia mancata.