L'arte di essere felici, recensione: una commedia che si interroga sul ruolo dell'arte (rispetto al pubblico)

Benoît Poelvoorde è il mattatore assoluto del film di Stefan Liberski, che si interroga sulla funzione dell'arte: espressione elitaria o empatica con il pubblico? Nel dubbio vince la comicità del protagonista. In sala il 30 ottobre.

Benoît Poelvoorde in L'arte di essere felici

È uno dei dubbi più vecchi del mondo: l'artista deve pensare al pubblico quando crea, oppure deve rimanere indipendente? Nonostante le riflessioni di gente illuminata come Kant, che ha definito l'artista come qualcuno che si identifica nel Genio, ovvero in grado di entrare in connessione con la natura, tanto da arrivare a una bellezza che piace universalmente, senza concetto (detto in estrema sintesi, ci perdoneranno gli studiosi di filosofia), a più di 200 anni dalla morte del pensatore tedesco siamo ancora qui a farci la stessa domanda. Se la fa anche il protagonista di L'arte di essere felici (titolo che richiama un altro filosofo tedesco, Arthur Schopenhauer), film di Stefan Liberski con uno scatenato Benoît Poelvoorde.

L Art D Etre Heureux Scena Tratta Dal Film Copyrights Laurent Thurin Nal
Benoît Poelvoorde in L'arte di essere felici

Presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma 2024, L'arte di essere felici esce in sala il 30 ottobre e ci lancia a velocità folle nel mondo squinternato di Jean-Yves Machond (Poelvoorde appunto), artista con ambizioni concettuali, che decide di lasciare l'insegnamento a Bruxelles per andare in Normandia, precisamente a Étretat, in modo da fare tabula rasa, ritrovare l'ispirazione e ricominciare a dipingere. Nonostante si rechi negli stessi luoghi che hanno ispirato pittori impressionisti quali Monet, questo fulmine non arriva. Anche perché la sua vita privata, segnata da una famiglia andata in pezzi, con divorzio e conseguente lontananza dalla figlia, lo tormenta.

Adattamento cinematografico del libro La dilution de l'artiste di Jean-Philippe Delhomme, a sua volta pittore, illustratore e critico, il film di Liberski è una riflessione divertente sull'arte nel mondo contemporaneo, ormai indissolubilmente legata al profitto e a strumenti diabolici quali gli algoritmi, progettati appositamente per capire se un prodotto piacerà, o no, al pubblico. E, soprattutto, è un titolo pensato per un animale da palcoscenico come Benoît Poelvoorde, qui mattatore assoluto e maggior motivo di interesse.

Il ruolo dell'artista nel mondo di oggi

Sono passati i tempi in cui un genio assoluto, e tormentato, come Vincent van Gogh moriva povero e malato senza sapere di aver fatto la storia dell'arte. Oggi la maggior parte di chi crea è inevitabilmente immersa nel sistema capitalista, dovendo quindi fare i conti con fatturato e pubblico. Sono sempre meno i talenti che possono permettersi di seguire la propria vocazione senza doversi promuovere costantemente sui social. La funzione stessa dell'intellettuale è cambiata: oggi sono pochissime le voci che hanno il coraggio di dire qualcosa di spiazzante, di fuori dal coro. Viviamo tutti nel terrore di dire qualcosa di sbagliato e quindi subire una gogna mediatica a mezzo social. Ma in questo modo il dialogo si impoverisce, il pensiero è sempre meno critico, il gusto diventa omogeneo.

Allo stesso tempo chi rigetta questo sistema senza però avere dalla sua qualcosa di davvero innovativo, o inedito, da dire, o mostrare, fa la figura dell'ipocrita. Se non del ridicolo. Ed è un po' ciò che succede al nostro protagonista: Jean-Yves non ha l'idea geniale che brama disperatamente, non ha più quel fascino misterioso che una volta la figura dell'artista suscitava, e non ha nemmeno la disinvoltura con le donne che tanto insegue. Invaghito della gallerista Cécile (Camille Cottin, la strepitosa interprete di Andréa Martel nella serie Chiami il mio agente!), rimane completamente schiacciato dalla forza e dalla sicurezza di lei. Che fare quindi quando tutto si inceppa e ci rendiamo conto di non essere all'altezza delle nostre ambizioni?

Benoît Poelvoorde scatenato

Liberski non ha dubbi: ci si dà alla commedia. Quella raccontata in L'arte di essere felici è infatti la "tragedia di un uomo ridicolo", che non sa come muoversi in un presente che non capisce e da cui si sente escluso. La bravura di Benoît Poelvoorde non è sorprendente, perché conosciamo la caratura del suo talento, ma, ancora una volta, è trascinante: la sua è una fisicità dirompente, che riempie lo schermo, attingendo a piene mani dalla commedia fisica, quasi slapstick.

L Art D Etre Heureux Foto Copyrights Laurent Thurin Nal
Una scena di L'arte di essere felici

La sua frustrazione esplode nel finale, in una scena in cui, in un delirio totale, non teme più nemmeno l'autorità: urlando contro dei poliziotti, mette in mezzo tutti i temi che hanno riempito i giornali in questi ultimi anni, arrivando perfino a citare il movimento Black Lives Matter e la terribile uccisione di George Floyd. Alla fine L'arte di essere felici non ci dice nulla che già non sappiamo, ovvero che, al netto di tutto, le cose che contano davvero nella vita sono i nostri affetti. Ma ci regala l'ennesima ottima prova, questa volta comica, del grande attore belga.

Conclusioni

L'arte di essere felici di Stefan Liberski è una riflessione sulla figura dell'artista nel mondo contemporaneo, che prende ispirazione dal libro La dilution de l'artiste, scritto dal vero pittore e critico Jean-Philippe Delhomme. Ma è, soprattutto, una commedia. Una commedia che può contare sulla scatenata prova di Benoît Poelvoorde, che riempie lo schermo con la sua fisicità e parlantina. Da vedere principalmente per lui.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
N/D

Perché ci piace

  • La prova scatenata di Benoît Poelvoorde.
  • Camille Cottin, che appare poco, ma è sempre brava.
  • La leggerezza della scrittura.

Cosa non va

  • Il film non racconta nulla di nuovo.
  • Chi non ama l'umorismo francese potrebbe non apprezzare.