L'idea per L'albero della vita nacque sul fazzoletto di un ristorante nel 1999. Fu lì che Darren Aronofsky appuntò un abbozzo di quella che, solo nel 2006, sarebbe diventata un'opera completa. Ci sono voluti sei anni di lavorazione, un lasso di tempo niente male; uno dei primi problemi contro i quali il regista di Requiem for a Dream ed i suoi collaboratori si sono dovuti scontrare, è stato quello del rifiuto degli studios. All'inizio nessuno di questi sembrava voler scommettere su una idea così insolita: i vari studios stentavano a capire cosa avesse in mente il regista e rifiutavano il progetto. Questa storia della ricerca dell'immortalità, giocata tra presente passato e futuro, in effetti, doveva sembrare alquanto rischiosa. Alla fine, tutto si risolse per il meglio.
Ma perché Aronofsky decise di fare un film basato su una storia simile?
Il primo stimolo lo ricevette quando si trovò a ragionare sul fatto che in tutte le culture esistono leggende sull'immortalità e la vita eterna. Il secondo, quando giunse alla conclusione che solo pochi film si sono occupati di un tema così affascinante, come la ricerca della Fonte della Giovinezza. Tema che, proprio secondo il regista, è quanto mai attuale. In una società, la nostra, in cui "ogni giorno la gente cerca un modo per prolungare la propria vita o sentirsi più giovane". Stando sempre alla sue dichiarazioni, le persone non accetterebbero il fatto che la morte sia parte integrante della vita e che questo potrebbe portare ad una eccessiva preoccupazione per il fisico a discapito dello spirito. Insomma, un tema che lo ha molto appassionato, tanto da portarlo a compiere ricerche su ricerche, attraverso tutte le epoche e le culture. Studi che hanno potato via parecchio tempo, ispirando continue modifiche e riscritture.
Un altro passo difficoltoso fu la scelta del protagonista. Serviva qualcuno capace di interpretare un triplice ruolo, che non avesse paura di subire diversi cambiamenti fisici ed emotivi. L'incontro tra Aronofsky e Hugh Jackman avvenne in un teatro di Broadway, dove l'attore interpretava il cantautore Peter Allen in The Boy from Oz. Il regista capì subito che quello era l'uomo giusto. Anche Jackman, dopo la lettura della sceneggiatura, si dichiarò entusiasta ed accettò la sfida. Questa scelta comportò un'ulteriore attesa di otto mesi, poiché gli impegni a teatro dell'attore, non si sarebbero risolti prima di allora.
Anche la lavorazione vera e propria del film è stata parecchio difficoltosa, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione degli effetti speciali. A tal proposito, Aronofsky sembrava avere le idee piuttosto chiare: poca computer grafica e solo dove necessario. Grazie all'ausilio di un gruppo di tecnici parecchio affiatati (utilizza sempre gli stessi fin dal primo film), il regista è riuscito a superare ogni ostacolo. Primo fra tutti la creazione, non digitale, dell'albero della vita, che è stato realizzato intorno ad una grande struttura d'acciaio, alla quale sono stati applicati rami e cortecce per metà finte e per metà vere (con detriti di legno provenienti dal Quebec). Anche lo spazio, che si vede attraverso la navicella-bolla di sapone nelle sequenze futuristiche, ha dato il suo bel da fare. "Volevo dare al pubblico qualcosa di diverso da quello visto finora, qualcosa di organico", ci dice Aronofsky. Le stelle del film, dunque, non sono altro che foto ingrandite di colture batteriche. Un problema risolto egregiamente.