Ora che è finalmente disponibile su Netflix, di certo non saranno pochi quelli che andranno alla scoperta (o riscoperta) di Kong: Skull Island, il secondo film di quel MonsterVerse che ha avuto il suo apice nel recente scontro tra il Re dell'Isola del Teschio e il mitico lucertolone atomico giapponese. Skull Island è stato un film che divise la critica, ma che offrì di certo un bel po' di divertimento e avventura al pubblico, mostrandoci la gigantesca scimmia in modo completamente diverso da ciò che fino ad allora la settima arte aveva offerto. Ambientato nel 1973, il film, con un cast di prim'ordine e un'ottima CGI, non era però solo una scusa per vedere di nuovo il nostro adorato gorillone fare a botte con chiunque gli capitasse sotto mano. La sceneggiatura, infatti, fece di quei 118 minuti di spari, mostri e pericoli, una metafora di quell'inferno reale e orrendo che era stata propria la Guerra in Vietnam, le cui atmosfere cinematografiche e non si palesarono per ogni istante di quell'inquietante avventura.
Ricreando il Vietnam nella terra di Kong
La prima cosa che si nota in Kong: Skull Island è il fatto che il gruppo incaricato di esplorare l'Isola del Teschio sia alquanto eterogeneo. Vi è l'ex S.A.S. James Conrad (Tom Hiddleston), uno strano agente governativo chiamato Bill Randa (John Goodman), una fotoreporter pacifista (Brie Larson) e, naturalmente, un reparto di elicotteristi. La neonata cavalleria elitrasportata americana ebbe il suo battesimo del fuoco proprio in Vietnam, in particolare nella leggendaria battaglia della valle del La Drang. Si, esatto, quella di We Were Soldiers: uno scontro che sostanzialmente finì con un nulla di fatto ma che sancì l'entrata in guerra degli Stati Uniti in quell'angolo di Sud-Est Asiatico. Assieme a loro, anche degli scienziati della Monarch, incaricati di sperimentare bombe per fare luce su ciò che si nasconde nel sottosuolo. Tutto questo non è altro che un ulteriore omaggio a ciò che fu il Vietnam: elicotteri d'assalto, bombardamenti, servizi segreti, giornalisti militanti. Il sottosuolo di quell'Isola è ricolmo di mostri, così come il Vietnam aveva i tunnel di Cu Chi. Si trattava di una vastissima rete di gallerie dove si nascondevano i Vietcong, pronti a colpire di sorpresa gli Americani. Le bombe sganciate dagli elicotteri guidati dal Colonnello Packard (Samuel L. Jackson) altro non sono che una fantasiosa variazione delle famigerate "Taglie-Margherite", il nomignolo con cui erano definite le BLU-82 Commando Vault, le bombe più potenti utilizzate in quella guerra. Queste e molte altre venivano sganciate per far crollare proprio quei tunnel dove si nascondevano quei piccoli ed agguerriti guerrieri, che già avevano fatto capitolare i francesi anni prima a Dien Bien Phu.
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Tra realtà storica e finzione cinematografica
Dal punto di vista visivo, sonoro, così come nei dialoghi, il conflitto in Vietnam è sempre evocato da Kong: Skull Island. Gli omaggi ad Apocalypse Now, Full Metal Jacket, Hamburger Hill collina 937 o Il cacciatore si sprecano. O forse semplicemente è stato il Vietnam a diventare il conflitto più cinematografico di sempre, in cui realtà e ficiton si sono fuse. La cosa diventa palese quando i protagonisti incontrano gli indigeni, arroccati in una sorta di città fortezza, che ricorda molto quella in cui il Colonnello Kurtz di Marlon Brando aveva edificato il suo regno in Apocalypse Now. Gli abitanti appaiono imperscrutabili, non ostili ma avvezzi a dover combattere contro "mostri" molto più grandi e potenti di loro.
Il che è una metafora di come il popolo vietnamita vide giapponesi, francesi ed infine americani: creature sanguinarie e gigantesche, che li costrinsero ad uno stato di guerra perenne. King Kong, il protettore di quel popolo, altro non è che una duplice metafora a sua volta. Da una parte simboleggia la forza e la ferocia con cui i vietnamiti piegarono i nemici, anche a costo di diventare essi stessi mostri e carnefici (dei crimini di guerra compiuti dai Vietcong non si è mai parlato molto). Ma l'enorme scimmia, rappresenta soprattutto la natura, ferale e selvaggia, quella natura che si rivelò la migliore alleata nella lotta di liberazione, con le sue giungle, paludi, le sue zanzare, serpi, le malattie e soprattutto il caldo asfissiante. Spesso i soldati americani si ritrovarono già allo stremo dopo poche ore, dal momento che come i soldati di Packard non avevano pressoché difesa contro un ambiente così ostile. Un po' come successo nella mitica scena della battaglia contro uno degli orrendi rettili dell'Isola.
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I tre volti della Guerra
La Guerra del Vietnam, nei suoi significati umani e politici più profondi, è legata in particolare a tre personaggi: al reduce scomparso Hank Marlow (John C. Reilly), il già citato Colonnello Packard ed il Maggiore Chapman (Toby Kebbell). Marlow è rimasto imprigionato su quell'isola durante la Seconda Guerra Mondiale, dove è diventato giocoforza amico per molti anni di un "nemico" giapponese (affettuoso omaggio a Duello nel Pacifico). Saggio, tollerante, coraggioso, rappresenta quella "Generazione Gloriosa" le cui gesta si pensava di emulare in Vietnam contro un altro totalitarismo, ma di cui si ignorarono consigli ed insegnamenti morali, diventando non diversi dai nazisti.
Chapman, sorta di omaggio al Killgore di Robert Duvall, è invece la mostruosità di ciò che fu l'America in Vietnam e poi in tanti altri paesi. Reca con sé la rabbia per aver perso ormai la guerra, abbraccia il "mito" di una vittoria sfumata per colpa di politici e pacifisti, non conosce altro linguaggio che la violenza e l'aggressione. Senza moralità, si dimostra anche incurante delle perdite subite dai suoi uomini, la cui morte è una scusa con cui continuare una guerra senza senso se non quello di sfogare la propria sete di violenza. Il coraggioso Chapman, che finirà divorato da uno Strisciateschi, è invece il personaggio dal significato più tragico. Uomo coraggioso, ufficiale coscienzioso e onesto, che vuole solo tornare a casa, è il simbolo dei tanti ragazzi che finirono divorati da quella guerra, oppure sparirono senza che si sapesse nulla della loro sorte. Alla fine del conflitto, centinaia di loro rimasero nelle mani dei Viet. Solo pochissimi riuscirono a tornare dalle loro famiglie, a volte dopo molti anni, come successo proprio a Marlow, dato per morto per più di vent'anni.
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Risvegliando il male
Ma forse la scena più importante, più terribile per ciò che rappresenta storicamente, è quella in cui il folle Packard decide di uccidere Kong, nonostante sia palese che non è lui il pericolo reale, o che perlomeno non ha fatto altro che difendere la sua terra da bombe sganciate senza motivo (il che in sostanza è ciò che fecero gli Stati Uniti in Vietnam). Distrugge la natura con il napalm, stravolge un mondo, ciecamente sacrifica i suoi uomini, tempo ed energia per distrugge Kong. Ma nel farlo in realtà apre la strada a qualcosa di molto peggiore, al re degli Strisciateschi, senza per altro riuscire a uccidere la gigantesca scimmia. Lo Strisciatechi rappresenta ciò che venne dopo la vittoria dei Vietcong: i Khmer Rossi di un mostro vero, Pol Pot, che si macchiarono di orrori indicibili in Cambogia, godendo anche dall'aiuto degli occidentali, ansiosi di usarli in funzione anti-comunista. Ma il gigantesco mostro rappresenta, oltre che l'orrore della guerra, nata dall'opera dell'uomo, il lato più oscuro della nostra natura, anche altre conseguenze che colpirono gli Stati Uniti entrati in guerra, in particolare fenomeni come la tossicodipendenza (l'eroina diventò un fenomeno di massa a causa dei reduci), i problemi legati al reducismo, la conflittualità sociale, la crisi economica... gli Stati Uniti non avevano solo perso una guerra sbagliata, massacrato una popolazione e distrutto una terra. Avevano abbracciato in toto il male, visto i loro ragazzi commettere massacri come quello di My Lay, tornare a casa distrutti nell'anima, incapaci di reagire, alle prese con disturbi da stress post-traumatico, mutilazioni fisiche ed emotive. E pensare che all'inizio, come nell'Isola del Teschio, tutto pareva una passeggiata, una missione facile affidata a "consiglieri militari"...