"Le storie di una vita incredibile" era il sottotitolo italiano di un film molto famoso. Potrebbe essere benissimo anche quello che accompagna Kill Me If You Can, il documentario di Alex Infascelli che è stato la vera e propria sorpresa della terzultima giornata della Festa del Cinema di Roma. Kill Me If You Can, presentato ieri all'Auditorium Parco della Musica (lo vedremo nei cinema a febbraio 2023, distribuito da Wanted), racconta la vita davvero incredibile di Raffaele Minichiello, un uomo che, un giorno, pensò bene di salire su un aereo che avrebbe dovuto volare da Los Angeles a San Francisco e di dirottarlo, in direzione Il Cairo. Sarebbe invece finito in Italia, a Roma. Basterebbe questo per farne un film. Eppure quel dirottamento è solo il culmine di una vita incredibile, che prima lo ha visto combattere in Vietnam e poi vivere una serie di vicissitudini che neanche lo sceneggiatore più fantasioso potrebbe immaginare.
A presentare il film, con Alex Infascelli e i produttori, c'era proprio lui, Raffaele Minichiello. "Voglio raccontare la mia storia perché penso che possa essere utile a tanti" ha raccontato dal palco della Sala Petrassi. "La mia vita è cadere e rialzarsi di continuo. La vita è così, ci troviamo in certe situazioni per cose che noi facciamo e di cui siamo responsabili e cose che accadono ad altri e sulle quali non possiamo fare niente". La sua è stata una vita così movimentata che è stato difficile mettere tutto dentro un film, e dare alla storia un punto di vista. "Il regista ha tutte queste informazioni e poi deve fare un puzzle, costruirlo" spiega Minichiello. "È stato molto bravo, ho visto il film e ha fatto un buon lavoro. Io forse avrei voluto qualche altra cosa, ma penso che sia normale". A un certo punto del film, si accenna al fatto che degli sceneggiatori, a suo tempo, avrebbero voluto scrivere la storia di Raffaele per il cinema. "Sapevo che Carlo Ponti aveva tentato di costruire un film" ci racconta Alex Infascelli. "Non ho cercato gli sceneggiatori. Mi piaceva che Walter Cronkite parlasse di un eventuale film come una beffa. A quei tempi sarebbe stata una cosa negativa; oggi verrebbe visto una cosa positiva: ci fanno un film, quindi è importante".
Alex Infascelli: "La giustizia italiana si fece commuovere"
E un film, alla fine, anche se un documentario, lo ha fatto Alex Infascelli. La storia del dirottamento, partita a Los Angeles, proseguita a Denver, New York e il Maine, si è conclusa in Italia, a Roma, dove è arrivato l'aereo dirottato da Minichiello, con il suo arresto e il processo. Sì, il dirottatore fu processato in Italia, dove furono chiesti sei anni e mezzo di carcere, e se la cavò con uno e mezzo. È quella giustizia italiana che critichiamo sempre? "Gli Stati Uniti non possono insegnarci tanto a livello di giustizia" riflette Infascelli. "La giustizia italiana, in quella occasione, si fa commuovere, si fa trasportare da questa storia. Questa è la mia lettura di quel momento. Provo affetto per quella sorta di Cannavale, il giudice di Piazzale Clodio". "Il p.m. aveva chiesto sei anni e mezzo, il giudice mi ha dato un anno e mezzo" spiega Minichiello. "Il dirottamento non esisteva come reato. L'Italia non mi poteva dare l'estradizione, perché gli Stati Uniti era un paese dove c'era la pena di morte. Ma gli Stati Uniti non hanno mai chiesto l'estradizione". "Adesso negli Stati Uniti ho i diritti al cento per cento, sono libero" ci spiega con un velo di tristezza, "mentre in Italia vengo sempre fermato all'aeroporto e trattato come spazzatura".
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Alex Infascelli: "Il 1969 è l'anno dell'allunaggio, e cambia la televisione"
Ma quella storia, secondo Infascelli, è anche simbolica di una televisione e di un sistema mediatico che stava cambiando. "Il 1969 è l'anno dell'allunaggio, e cambia la televisione" ragiona il regista. "Viene fatta una diretta dalla Luna. E in questa occasione viene fatta una narrazione in prime time sulla tv americana sul dirottamento di Raffaele. Viene disegnato come un pazzo scriteriato, un ex marine che puntava il fucile contro l'equipaggio, mente dentro l'aereo si giocava a carte, ci si innamorava, si andava in bagno lasciando il fucile incustodito. Era interessante vedere come gli americani lo trattavano, mentre noi trattavamo Raffaele come un eroe".
Alex Infascelli: "Chiudiamo in dissolvenza, come le canzoni di una volta"
Kill Me If You Can è un film con un continuo saliscendi emotivo, un film dove si ride e si piange, e che si chiude con un finale sfumato, senza un vero scoop. "Lo scoop di questo film è che non c'è scoop" spiega Alex Infascelli. "Non sempre serve andare a quella nota finale che ci permette di chiudere col fiocchetto. La vita è così, un continuo punto interrogativo: la ricerca della verità dura tutta la vita. Avendo toccato un lasso di tempo così ampio, mi sono scontrato al montaggio che è il mio vero tavolo di lavoro, quello dove scrivo. A volte snerva i miei produttori: è un continuo decoupage, è montare, smontare e tagliare. Il senso delle cose, una volta messe l'una accanto all'altra, cambia. E, tragicamente, mi sono accorto che non avevo un finale. Ero drogato dal fatto che dovessi avere un climax, come Totti che tira il pallone nella curva. Come la chiudo? Nel modo più onesto possibile. Che ne so di questi lati grigi nella vita di Raffaele? Allora devo finire con un nulla, con un inizio. Con la sua vita nel presente e noi che continuiamo a vivere con una storia raccontata e con quello che ne faremo".
A proposito del finale del film, Infascelli, musicista, trova una metafora musicale per spiegarlo: "Un tempo, nei dischi più belli, le canzoni finivano in dissolvenza. Oggi le musiche hanno un finale. Quello che ho voluto fare io è stato come in quelle canzoni di una volta, andare via con il volume e far sentire il suono di dove ci troviamo, il suono della nostra vita".
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Lorenzio Mieli: "Il film non ha un finale perché la vita non ha un finale"
Kill Me If You Can, vista la vita intensa di Raffele Minichiello, era un film potenzialmente infinito. Il dirottamente è stato solo l'inizio, il fatto più eclatante. Non è un caso che, a metà film, Alex Infascelli inserisca la scritta "fine primo tempo" e poi "inizio secondo tempo", come nei film che guardavamo al cinema. Perché il secondo tempo di Minichiello c'è, eccome. "Prima, durante e dopo quel dirottamento, Raffaele ha avuto una vita complicata, dolorosa, piena di amore" spiega il produttore Lorenzo Mieli. "Il film non ha un finale perché la vita non ha un finale, non avere un senso ma voler raccontare questa esperienza era un'ambizione interessantissima ma potenzialmente infinita. Dall'inizio noi abbiamo seguito Alex in questo percorso, fatto di mezzi e soprattutto di tempo: ricerca di materiali, oggetti da raccontare, esplorazione di un possibile senso. Quello per cui questo documentario è speciale è che viola la logica con tanti possibili finali. Tutto ciò è stato possibile perché ci sono dei materiali speciali che Alex e il gruppo di produzione hanno trovato. Il materiale del processo, quello in cui esce e cerca lavoro, quando lavora nel ristorante, sono talmente umani e cinematografici ci hanno permesso di raccontare, a modo suo, la storia di Raffaele". Fate attenzione, perché nelle scene in cui Raffaele lavora come cameriere si vede, per un attimo, Walter Chiari.
Alex Infascelli: "Sembra di vedere Peckinpah o Cassavetes, poi diventa Germi"
Kill Me If You Can è un documentario che avvince come se stessimo guardando un grande film di finzione. E la cosa più bella è che sono tanti film in uno. "Nella prima parte sembra di vedere Peckinpah o Cassavetes, poi diventa Germi" riflette Infascelli. "C'è una quantità di generi cinematografici in questo film che è incredibile. In certi momenti ho lasciato che ci fossero dei momenti di musica e immagini, mandando in play il materiale di repertorio e sottraendomi, mettendomi insieme a voi a vedere il film".