Da oltre tre anni, da quando ha fatto il suo esordio sul piccolo schermo grazie al servizio di streaming Netflix, è diventato uno dei pilastri della serialità televisiva: un personaggio talmente poderoso, nel suo sfrenato machiavellismo e in quell'aura di tragicità shakespeariana, da trascendere i confini della narrazione e farsi icona della cultura di massa dei nostri tempi. Ci riferiamo, naturalmente, a Frank Underwood, novello Riccardo III e fittizio Presidente degli Stati Uniti (con un autentico esercito di scheletri nell'armadio) in House of Cards.
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A prestare volto e voce al Presidente Underwood, modellando il ruolo con consumato istrionismo per ottenere il giusto equilibrio fra carisma e sgradevolezza, è uno degli attori più talentuosi d'America, il cinquantasettenne Kevin Spacey, che grazie alla sua performance in House of Cards ha ricevuto il Golden Globe come miglior attore TV e ben quattro nomination all'Emmy Award. E magari sarà stata proprio la dimestichezza assunta rispetto alla Casa Bianca e agli incarichi presidenziali ad aver spinto Spacey, quest'anno, a calarsi nella parte di un altro Presidente degli Stati Uniti. Un Presidente, incredibile ma vero, ancora più losco e 'famigerato' di Frank Underwood: Richard Nixon, co-protagonista del film Elvis & Nixon, in uscita questa settimana nelle sale italiane.
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La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto...
Kevin Spacey, del resto, sembra essere nato per cimentarsi con questo tipo di ruoli: figure infide, tenebrose e inquietanti, o addirittura veri e propri villain. Prima di 'tornare' alla Casa Bianca, pertanto, facciamo un passo indietro e tracciamo le fasi salienti nella parabola professionale dell'attore del New Jersey, che grazie alla TV ha conosciuto una nuova giovinezza artistica. L'esordio sul grande schermo è quantomeno bizzarro: l'anno è il 1986, il film è Heartburn - Affari di cuore di Mike Nichols e Spacey compare per circa due minuti nei panni di un giovane rapinatore che pedina Meryl Streep fuori dalla metropolitana per poi derubare lei e i suoi amici dei quartieri alti. Qualche anno ed ecco arrivare ruoli più sostanziosi in film come Americani di James Foley, in cui Spacey ha l'onore di dividere la scena con giganti quali Al Pacino e Jack Lemmon (Lemmon resterà sempre il suo nume tutelare), Iron Will e la commedia nera C'eravamo tanto odiati, accanto a Judy Davis.
Ma è nel 1995 che arriva la consacrazione, grazie a non uno, ma ben due ruoli da standing ovation in altrettanti incontestabili cult movie del decennio. Ne I soliti sospetti, diretto da un giovane Bryan Singer, Spacey è Verbal Kint, un furfante zoppo che, dietro la sua aria smarrita e spaventata, cela l'identità di Keyser Söze, leggendario criminale dall'astuzia sopraffina. Ancora più angosciante, se possibile, è John Doe, nome emblematico (un "signor nessuno", come in Arriva John Doe di Frank Capra) per identificare il serial killer che sta terrorizzando un'imprecisata metropoli americana commettendo atroci delitti ispirati ai sette vizi capitali. In Seven, primo capolavoro di David Fincher, Spacey compare per una manciata di minuti nella parte finale del film, ma tanto basta per consegnare all'antologia del cinema un altro villain indimenticabile, con la sua sarcastica compostezza e il raggelante sadismo lasciato trapelare con un semplice sguardo.
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La maschera ambigua della American Beauty
Premiato con l'Oscar come miglior attore non protagonista per I soliti sospetti, nella fase successiva della sua carriera Kevin Spacey non si lascia ingabbiare nei ruoli da "cattivo": dopo due autentiche incarnazioni del Male, ecco dunque una galleria di personaggi umani, fragili, contraddittori, avvolti in un'ambiguità che può diventare addirittura una prigione. È il caso ad esempio, nel 1997, di Jack Vincennes, detective della squadra narcotici della polizia di Los Angeles negli anni Cinquanta, pronto a sfruttare tutti i vantaggi della sua professione (pure in maniera poco 'pulita') in L.A. Confidential, gioiello noir firmato da Curtis Hanson dal romanzo di James Ellroy; e di Jim Williams, ricco e mellifluo antiquario di una città della Georgia, accusato di aver ucciso il suo amante, il giovane marchettaro Billy Hanson (Jude Law), in Mezzanotte nel giardino del bene e del male, ottimo dramma dai risvolti gialli di Clint Eastwood.
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L'interpretazione più famosa e più celebrata di Kevin Spacey, però, è quella di Lester Burnham, perfetto esempio dell'everyman appartenente alla middle class, in American Beauty, folgorante opera prima di Sam Mendes: un quarantenne afflitto da frustrazioni in ogni ambito della propria esistenza, da un lavoro per nulla gratificante a una vita familiare che lo vede succube della moglie Carolyn (Annette Bening) e incapace di comunicare con la figlia adolescente Jane (Thora Birch). E la performance di Spacey, in questo dramma doloroso con cadenze da black comedy, è un tour de force di registri diversi e di continue variazioni, particolarmente efficace nelle scene in cui il suo Lester - prima dimesso e poi anticonformista - si trova a 'duettare' con una Annette Bening deliziosamente sopra le righe. Dopo essere stato accolto trionfalmente al Festival di Toronto 1999, American Beauty si rivela un fenomeno mediatico trasversale e un gigantesco successo di pubblico e conquista cinque premi Oscar, tra cui miglior film, miglior regia e la statuetta come miglior attore per Spacey.
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Essere o non essere cattivo
Contro le previsioni, il periodo successivo ad American Beauty non è particolarmente fortunato per la carriera di Kevin Spacey, con un discreto numero di film non molto apprezzati da critica e pubblico e il mezzo flop della sua seconda prova da regista, il biopic su Bobby Darin Beyond the Sea. Nel dubbio, a Hollywood tornano a puntare sul sicuro, riaffidando all'attore quelle tipologie di ruoli che lo avevano reso famoso: i villain. Se però in Seven e I soliti sospetti Spacey costruiva degli antagonisti davvero da brivido, ora eccolo alle prese con cattivi più 'cartooneschi' e sopra le righe: come lo spietato Lex Luthor del Superman Returns di Bryan Singer, cocente delusione datata 2006 con una saga troncata sul nascere. Più interessante e sfumato il suo ritratto sottilmente mefistofelico del professor Mickey Rosa, che circuisce il dotato studente di matematica Ben Campbell (Jim Sturgess) in 21, mentre si passa al puro camp nel 2011 con il sadico capufficio David Harken, feroce 'aguzzino' del malcapitato Nick Hendricks (Jason Bateman) nella commedia sbanca-botteghino Come ammazzare il capo... e vivere felici!.
Ma quando Kevin Spacey trova un copione in grado di esaltare davvero le sue potenzialità, mettendolo alle prese con personaggi più realistici e complessi, allora il suo talento lascia davvero a bocca aperta, una volta di più: è il caso di Margin Call del 2011, superbo film d'esordio di J.C. Chandor, in cui la crisi di Wall Street del 2008 è raccontata attraverso ventiquattro, folli ore all'interno degli uffici di una grande banca d'investimento. Nella parte di Sam Rogers, il "volto umano" di un sistema bancario marcio fin nel midollo, un individuo capace di risvegliare la propria coscienza e di battersi per principi diversi dal profitto, Spacey offre una delle sue migliori prove di sempre, distinguendosi all'interno di un cast di primo livello.
Il Presidente e la rockstar
E dal 2013, come dicevamo in apertura, il pubblico si è abituato ad associare Kevin Spacey a Frank Underwood, uno dei personaggi simbolo della TV odierna, protagonista di una delle più cupe e, ammettiamolo, divertenti rappresentazioni della politica americana, accanto a una degna First Lady come Claire Underwood (Robin Wright). In questi giorni, però, Spacey è di nuovo al cinema nei panni di Richard Nixon, vero Presidente americano per due mandati, dal 1968 al 1974, quando fu costretto alle dimissioni in seguito allo scoppio dello scandalo Watergate. In Elvis & Nixon di Liza Johnson viene narrato infatti il reale incontro fra Nixon ed Elvis Presley, nel dicembre 1970, quando il "Re del rock 'n' roll" si presentò senza preavviso a un ingresso della Casa Bianca, chiedendo di essere ricevuto dal Presidente.
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Nel film, Michael Shannon veste i costumi eccentrici di un Elvis ossessionato dall'idea di essere nominato agente segreto al servizio del Governo, per intraprendere una personale crociata contro la droga e, più in generale, contro l'intero movimento hippie, non risparmiando strali verso le "nuove leve" come i Beatles e i Rolling Stones; mentre un Kevin Spacey ingobbito ad hoc riproduce invece l'atteggiamento scostante e il carattere burbero di Richard Nixon, tutt'altro che entusiasta all'idea di doversi confrontare con la rockstar di Memphis. Ma più volte, purtroppo, la performance di Spacey rischia di scivolare verso la caricatura, anche a causa di un materiale drammaturgico abbastanza debole: e al netto di qualche brillante scambio di battute, Elvis & Nixon rimane nel complesso un 'bozzetto' piuttosto esile, il cui valore aneddotico non riesce mai ad assumere una dimensione più ampia e universale. Di fronte a questo Nixon curvo e brontolone, preferiamo aspettare il ritorno del ben più affascinante Frank Underwood.