Dopo Isabelle Huppert un'altra signora del cinema francese si affaccia nel concorso della Berlinale. La Francia guarda al passato e dopo il racconto morale di Diderot firmato da Guillaume Nicloux, arriva un biopic dedicato alla celebre scultrice Camille Claudel. Il regista, stavolta, è Bruno Dumont, autore transalpino molto apprezzato dalla critica per aver firmato pellicole come L'umanità e Hors Satan. A volerlo fermamente per dirigere il drammatico biopic Camille Claudel, 1915 è stata la diva Juliette Binoche. Un'altra grande interpretazione femminile in questo concorso di Berlino ricco di primedonne.
Juliette, è vero che hai chiamato Bruno a lavorare con te perché volevi assolutamente essere diretta da lui?
Juliette Binoche: Si, è vero. Avevo nostalgia delle opere e dello stile di Kieslowski e credo che come lui anche Bruno Dumont abbia la capacità di guardare nell'animo delle persone con la macchina da presa, perciò l'ho contattato per lavorare con lui.
Bruno, puoi dirci qualcosa in più sulla genesi del progetto?
Bruno Dumont: La telefonata di Juliette mi ha emozionato. Ho pensato a lungo quale progetto suggerirle. Dal momento che Juliette è attrice, ma anche una pittrice, ho trovato una serie di affinità che aveva con Camille Claudel e ho pensato che in quel ruolo sarebbe stata perfetta.
Bruno Dumont: Nel cinema è importante puntare dritto al cuore, al sentimento perciò ho scelto di raccontare una storia estremamente semplice. La vita di Camille in manicomio è stata molto semplice, perciò più che affastellare eventi ho prefertio mostrare il suo dolore.
Juliette Binoche: I dialoghi presenti nel film sono basati sulla corrispondenza tra Camille e il fratello perciò io ho cercato di aderire a questa donna nel mondo più realistico possibile, mostrando il potere della sua presenza attraverso l'assenza dell'arte. Ho cercato di capire cosa poteva provare questa donna privata della sua attività principale: la scultura. Per me è stato molto difficile, ma sono stata felice di vedere in azione ancora una volta il potere del cinema di trasformare la vita delle persone. Camille ha passato quarant'anni in condizioni terribili sopportando il freddo, privata della libertà, privata del suo lavoro e dell'ispirazione. Io ho cercato di rendere tutto questo in modo concreto.
Quale è il confine tra normalità e follia? C'è un legame tra follia e genialità?
Bruno Dumont: Quando ho letto le lettere di Camille Claudel mi ha colpito il modo in cui lei parlava della malattia mentale. Sono stato catturato dalla sua lucida sofferenza e come regista ho cercato di riprodurre questa condizione. Per il film ho passato molto tempo con uno psicoterapeuta, con pazienti psichiatrici e con le loro famiglie per ricostruire l'atmosfera del manicomio in modo realistico. C'è un confine sottile tra i malati veri e coloro che simulano un disordine mentale per esprimere la loro sofferenza. La mia Camille collassa a causa del passato legame con Rodin e anche dopo vent'anni continua a rinvangare il momento della crisi che ha originato la sua malattia. Per rispetto verso la sua storia ho cercato di creare uno stile di scrittura realistico, una messa in scena il più possibile vicina alla realtà.
Juliette Binoche: Ogni volta che un'attrice accetta un lavoro è consapevole della responsabilità che il ruolo comporta. Stavolta mi trovavo a interpretare una persona realmente esistita che, nella sua vita, ha sofferto molto. Esitono tanti tipi di follia, Camille non è pazza, è una donna appassionata che ha amato un uomo divenuto in seguito, il suo peggior nemico. Dopo essere stata un'artista di successo, lei si è punita in questo modo finendo i suoi giorni in un manicomio. Quando ho deciso di lavorare con Bruno mi sono preparata leggendo un libro su Camille. Avevo paura di accostarmi a un personaggio con un simile bagaglio di sofferenza, ma ho cercato di esplorare la sua psiche nel miglior modo possibile.
E Paul Claudel invece?
Jean-Luc Vincent: Come per Camille, la principale difficoltà nell'interpretare Paul Claudel, è il fatto che la persona è esistita davvero. Il personaggio di Paul Claudel è perfettamente integrato nel film. Anche se appare nella seconda parte della pellicola, di fatto tutto ruota attorno alla visita del fratello a Camille. Non saprei giudicare le azioni di Paul. I due fratelli, entrambi artisti, erano molto legati, erano due persone forti ed è difficile capire le motivazioni che lo spingono a lasciare la sorella in manicomio invece di aiutarla a uscire.
Come mai avete deciso di raccontare questa breve fase della vita di Camille?
Bruno Dumont: Mi sono limitato a un momento del 1915 perché non volevo affrontare un lungo periodo di tempo. Dovevo trovare Camille in Juliette perciò ho deciso di limitarmi a un momento particolare della sua biografia.
Nel film è molto presente il tema della religione vissuto, da Camille e da Paul, in modo completamente diverso.
Bruno Dumont: Nella perfomance di Jean-Luc appare chiaro che i cattolici più fervento talvolta scivolano in una sorta di delirio religioso. Camille non ha la protezione di Dio, lei affronta tutto da sola, la fede non la aiuta ad accettare la sua situazione, lei non sembra realmente capace di affidarsi alla religione, mentre il fratello è posseduto da una specie di delirio religioso che influenza la sua poesia e anche il suo pensiero. Per rendere chiaro questo concetto ho cercato di spingere la perfomance di Jean Luc fino all'estremo.
Bruno Dumont: In realtà no. Io sono partito dalle lettere e dai report medici sulla salute della scultrice giunti fino a noi.
Juliette Binoche: Van Gogh aveva tendenze suicide, cercava la morte, mentre Camille ha lottato per vivere fino alla fine.
La prima parte del film contiene scene piuttosto forti, che vedono protagoniste le pazienti psichiatriche internate insieme a Camille. Sono scene, a tratti, disturbanti.
Bruno Dumont: E' una scelta dovuta alla necessità di far percepire chiaramente la difficoltà della condizione di Camille. Sono scene crude, forti. All'inizio i personaggi non parlano. Ho scelto di aprire il film senza parole perché non volevo far sì che lo spettatore si rilassasse. Volevo mantenere una tensione palpabile, ma nella condizione di queste donne malate c'è un'enorme bellezza. La stessa Camille ride e piange allo spesso tempo. Attraverso la condizione brutale in cui si trova, Camille si eleva.
Perché Camille non cerca mai di fuggire dal manicomio?
Juliette Binoche: Camille vuole vivere. Sfuggire alla prigionia col suicidio non è una possibilità per lei. Il suo obiettivo è trovare qualcuno che la ami, trovare la pace. Bruno si è preso delle libertà mostrandola mentre fa delle passeggiate insieme alle altre pazienti o sale su una montagna. Questa è la libertà di un regista, ma dalle lettere si percepisce l'intensità di una persona distrutta, che non era in grado di fuggire, ma vuole resistere fino alla fine.
Bruno Dumont: E poi non dimentichiamo che stiamo parlando del 1915. Camille ancora crede che uscirà. Anche alla fine della guerra lei sperava di uscire dall'ospedale psichiatrico e non sapeva che avrebbe concluso la sua vità lì dentro.