Joker, di cui in questa sede ci accingiamo ad analizzare il finale, è un film particolare, un urlo di follia all'interno della produzione dei lungometraggi basati sui fumetti di supereroi: a Todd Phillips e Joaquin Phoenix, rispettivamente regista e protagonista dell'operazione, non interessano i costumi sgargianti, le battaglie epocali e gli indizi che andranno a nutrire le trame dei vari sequel. Per loro esplicita volontà, questa rilettura delle origini dell'antagonista di Batman è un unicum (principalmente perché Phoenix è avverso all'idea di capitoli successivi), un'unità drammaturgica a sé che esiste in un universo tutto suo, un mondo che fa pensare più alla New York del cinema americano degli anni Settanta e Ottanta (in particolare la Grande Mela mostrata sullo schermo da Martin Scorsese) che alla Gotham City vista nei film di Tim Burton, Christopher Nolan e Zack Snyder.
In altre parole, è un film che del fumetto intende rispettare ben poco - e ne abbiamo parlato anche nella nostra recensione di Joker - riducendo al minimo indispensabile e in un contesto più verosimile la presenza di figure come Thomas Wayne o l'ospedale di Arkham (lontano anni luce dalle tinte gotiche tradizionalmente associate al manicomio criminale nell'universo cartaceo della DC Comics). Eppure, forse in quell'infedeltà si cela la fedeltà più grande, di cui vogliamo parlare prendendo come spunto iniziale il finale di Joker. Attenzione, seguono spoiler !
Arthur Fleck, il trionfo del clown?
Per tutta la durata del film, Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è alle prese con un mondo che lo disprezza, dalla società in senso più ampio che taglia i fondi all'iniziativa che gli dà accesso ai farmaci necessari per tenere sotto controllo i suoi vari disturbi mentali alla figura più specifica di Thomas Wayne, che rifiuta di avere a che fare con Arthur pur essendo (forse) suo padre. E poi c'è la goccia che fa traboccare il vaso: Murray Franklin (Robert De Niro), popolare conduttore televisivo e idolo indiscusso di Arthur, che invita l'aspirante comico a partecipare al suo programma solo per potersi prendere gioco di lui. Risultato: il folle Arthur, le cui azioni precedenti (l'uccisione, per legittima difesa, di tre rampolli dell'alta finanza di Gotham) hanno cominciato a ispirare moti di ribellione tra gli oppressi, uccide Murray in diretta televisiva e si precipita in mezzo alla strada, acclamato come un eroe da un'orda di seguaci (uno dei quali uccide Thomas e Martha Wayne davanti al piccolo Bruce). La follia ha trionfato, e il sorriso beffardo di Arthur, ormai ribattezzato Joker, è il simbolo di una rivoluzione.
È tutto vero?
O almeno lo è per un periodo limitato, perché poi ritroviamo Arthur all'interno di Arkham, dove si appresta a raccontare una barzelletta alla dottoressa di turno (un omaggio ingannevole a Harley Quinn), salvo poi cambiare idea e dire "Lei non la capirebbe". E poi c'è l'immagine di commiato, dove Joker, presumibilmente dopo averla uccisa (lo suggeriscono le impronte insanguinate), balla nei corridoi dell'ospedale, inseguito dallo staff. Alla luce di quanto abbiamo appreso nel corso del film, sorge spontanea la domanda: quello che abbiamo visto era vero, o solo il frutto dell'immaginazione di Arthur, la cui immagine della realtà è visibilmente distorta sin dall'inizio, prima ancora dell'assenza dei farmaci (basti pensare al suo rapporto con la vicina di casa)? È indubbiamente stato internato per un vero crimine, ma quale? L'uccisione di Murray, della madre, o dei tre giovani che lo tormentavano sulla metropolitana? Il suo trionfo era vero, o la sua mente malata ha ampliato a dismisura le azioni di pochi disadattati come lui, che vedevano nelle sue azioni un che di messianico? Il dubbio è lecito, così come lo era per una delle principali fonti di ispirazione del film, Taxi Driver (una teoria vuole che il finale sia un'allucinazione di Travis Bickle in punto di morte). E proprio per questo, a suo modo, Joker è una trasposizione fedele delle gesta del folle pagliaccio.
Joker: il film che ridefinisce il cinecomic
Quale opzione scegliere?
"A volte lo ricordo in un modo, a volte in un altro. Se proprio devo avere un passato, preferisco che sia a scelta multipla." Questa è la celebre frase del clown in The Killing Joke, la graphic novel definitiva sul personaggio, a cui si rifà anche Il cavaliere oscuro, dove il villain fornisce due spiegazioni diverse sull'origine delle sue cicatrici facciali (Batman lo interrompe prima che racconti una terza versione). Il film di Todd Phillips applica il medesimo principio, dando al pagliaccio un'origine precisa che in realtà non lo è: la madre di Arthur sostiene che lui sia il figlio illegittimo di Thomas Wayne, ma quest'ultimo lo smentisce sottolineando la follia della donna, precedentemente internata ad Arkham dopo aver permesso che uno dei suoi compagni violentasse il figlio.
Inoltre, come svelato proprio tramite una visita ad Arkham, Penny Fleck avrebbe adottato Arthur, lasciando nel dubbio la sua vera identità e, con essa, l'origine della sua psicosi. Le opzioni sono multiple, filtrate attraverso il punto di vista schizofrenico che accomuna madre e figlio. L'unica certezza è quella del nuovo nome, quello che Arthur sceglie di adottare, trasformando un nomignolo beffardo in terrificante biglietto da visita: Joker.
Da Joker a Arancia Meccanica: i film tra psicosi e atti di violenza
Non ci verrà mai detto il vero appellativo del celebre criminale, e la sua origine sarà sempre avvolta nel mistero. C'è però una certa logica perversa nella storyline della doppia famiglia, vera o falsa che sia: sempre in The Killing Joke, sottolineando quanto eroe e villain siano simili, il Joker dice a Batman "Sei a una giornata storta di distanza dal diventare come me", frase che assume tutt'altra connotazione in una realtà alternativa dove i due potrebbero essere fratellastri. Per non parlare del destino di Thomas, ucciso a sangue freddo da un "discepolo" di Arthur, il che pone le basi per l'inevitabile trasformazione di Bruce in Batman. E qui si ripensa al film di Tim Burton, dove fu proprio Jack Napier (il futuro Joker) a eliminare i coniugi Wayne, mentre la sua trasformazione fisica e mentale è dovuta a uno scontro con l'Uomo Pipistrello, il quale alla fine gli dice "Tu hai creato me, e io ho creato te." A suo modo, Phillips rielabora tale concetto all'inverso: Thomas Wayne (che, ricordiamolo, nella dimensione parallela di Flashpoint diventa Batman al posto del figlio) ha in parte creato il Joker, e questi, per interposta persona, finisce per creare il vigilante di cui Gotham avrà bisogno. Le colpe dei genitori si abbattono sulle vite dei due "fratelli", che non vedremo mai combattere in questa incarnazione specifica del franchise. E non ce n'è bisogno, perché anche lì, nei dubbi che attraversano il film, c'è una sorta di promessa di quella costante legata alla mitologia fumettistica e cinematografica della DC, già espressa ai tempi da Heath Ledger: "Io e te siamo destinati ad andare avanti così per sempre." Anche quando ciò che vediamo sullo schermo è, in apparenza, un tradimento di tutto quello che sapevamo sui personaggi.