Sono stato influenzato soltanto da una persona: prima di girare Quarto potere, ho visto Ombre rosse per quaranta volte. Non avevo bisogno di imparare da qualcuno che avesse qualcosa da dire, ma da qualcuno che mi mostrasse come dire ciò che avevo in mente; e John Ford in questo è perfetto.
Orson Welles, da sempre un grande ammiratore di John Ford, non è stato l'unico cineasta a lasciarsi ispirare dal maestro del western, né tantomeno a rendere omaggio al suo ruolo di nume tutelare per intere generazioni di registi. Basti pensare allo splendido finale di The Fabelmans, in cui il giovane protagonista, alter ego di uno Steven Spielberg ai suoi primi passi a Hollywood, incontra il proprio idolo John Ford, che attraverso il volto e la voce di David Lynch gli rivelerà un segreto su come inquadrare la realtà: "Quando l'orizzonte è in basso, è interessante. Quando è in alto, è interessante. Quando è al centro, è una palla mortale". Del resto, quanti altri hanno usato la macchina da presa per catalizzare la curiosità e l'eccitazione del pubblico con una maestria paragonabile a quella di John Ford? Un nome che, già di per sé, basta a rievocare un capitolo fondamentale della mitologia hollywoodiana.
Gli epici orizzonti di un gigante del cinema
Nato l'1 febbraio 1894 a Cape Elizabeth, una cittadina costiera del Maine, da una coppia di immigrati irlandesi, John Martin Feeney si spegneva in California il 31 agosto 1973, all'età di settantanove anni, lasciandosi alle spalle una carriera dalla prolificità sterminata. Sono oltre centoquaranta le pellicole da lui dirette in quasi sei decenni di attività, di cui quasi la metà durante l'età del muto; tuttavia, è a partire dagli anni Trenta che John Ford si imporrà come uno dei registi più significativi della Hollywood classica, riuscendo a coniugare il respiro epico della messa in scena alla tensione legata alle scelte morali dei suoi personaggi, spesso in conflitto con il microcosmo a cui appartengono o con una società ostile e in mutamento. In ogni caso, affidandosi al potere delle immagini: "Si potrebbe vedere un film senza dialoghi e capire di che parla. Questo era il segreto dei film di John Ford", commenterà il suo direttore della fotografia, Arthur Miller; "Potreste proiettare qualunque suo film senza sonoro e capire comunque di che parla".
Un talento, quello di John Ford, che l'establishment hollywoodiano non ha tardato a riconoscere, tanto da insignirlo della cifra record di quattro premi Oscar per la miglior regia, insieme a una quinta statuetta per il documentario bellico La battaglia delle Midway. Ciò che più conta è però lo straordinario impatto del cinema di Ford e l'eredità che, ancora oggi, continua a costituire un modello di riferimento da cui è difficile prescindere. E in occasione del cinquantenario della sua scomparsa, di seguito ripercorriamo dunque, in ordina cronologico, cinque capolavori di John Ford, in grado di offrirci un superbo saggio della sua importanza nella storia della settima arte.
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Il traditore
Il legame con l'Irlanda, terra natale della sua famiglia, è rimasto una costante della produzione di John Ford, e la Guerra d'Indipendenza Irlandese fa da scenario al film che, nel 1935, avrebbe sancito la sua consacrazione definitiva: Il traditore, tratto da un romanzo di Liam O'Flaherty e sceneggiato da Dudley Nichols. Ambientato nel 1922, in una Dublino segnata dagli scontri fra le autorità britanniche e i militanti dell'IRA, Il traditore racconta la parabola di Gypo Nolan, interpretato da Victor McLaglen, che dopo essere stato espulso dall'IRA decide di denunciare un ex-commilitone per intascare la taglia che permetterebbe a lui e alla sua famiglia di salpare per l'America. Esempio di individuo spinto ai margini della società e diviso fra l'interesse personale e la voce della coscienza, Gypo Nolan è un archetipo di antieroe fordiano in un'opera che, alla sua uscita, avrebbe entusiasmato critica e pubblico, tanto da guadagnarsi quattro premi Oscar, incluso il trofeo per il miglior regista.
Ombre rosse
In quel 1939 che si sarebbe attestato come annus mirabilis per antonomasia della Golden Age hollywoodiana, John Ford dirige il classico che più di ogni altro, all'epoca, avrebbe scolpito l'immaginario del genere western: Ombre rosse, adattamento di un racconto di Ernest Haycox (sempre a firma del fedele Dudley Nichols), con l'attore fordiano per eccellenza, John Wayne, nei panni del protagonista, soprannominato Ringo Kid. Ringo, insieme alla prostituta Dallas (Claire Trevor), fa parte di un piccolo gruppo di personaggi in viaggio su una diligenza che, dall'Arizona, punta a raggiungere il New Mexico; ma durante il viaggio, la diligenza sarà presa di mira da una bellicosa spedizione di apache. Inserito nella cornice dei suggestivi paesaggi della Monument Valley, Ombre rosse resta uno fra i vertici assoluti della filmografia di Ford, nonché una spettacolare (e imitatissima) lezione di drammaturgia e di regia.
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Furore
"Nessuno dei miei film cosiddetti migliori è un western", avrebbe dichiarato John Ford; e che si sia d'accordo o meno, è innegabile che i suoi capolavori vadano ben al di là dei confini di un singolo genere. È il caso della pellicola girata da Ford nel 1940, ad appena un anno di distanza da Ombre rosse: Furore, trasposizione del celebre romanzo omonimo appena pubblicato da John Steinbeck e dedicato alla vita delle classi più disagiate nell'America della Grande Depressione. Al cuore dell'opera vi è lo sradicamento forzato della famiglia del protagonista, l'ex-galeotto Tom Joad, interpretato da un memorabile Henry Fonda, e il lungo viaggio lungo la Route 66 in direzione della California, dove Tom e i suoi parenti contano di ricominciare una nuova esistenza. Magistrale esempio di realismo sociale, percorso da una vibrante forza emotiva, Furore sarebbe valso a John Ford il suo secondo Oscar per la regia ed è considerato tuttora uno dei migliori film americani di sempre.
Com'era verde la mia valle
Al trionfo di Furore fa seguito, nel 1941, un'altra storia familiare che, sebbene oggi non goda della stessa reputazione dei precedenti capolavori fordiani, alla sua uscita riscuote un successo perfino superiore: si tratta di Com'era verde la mia valle, ambientato in una comunità rurale di minatori nel Galles verso la fine dell'Ottocento. Basata sul romanzo di Richard Llewellyn, la pellicola adotta la prospettiva dell'adolescente Huw Morgan (Roddy McDowall) per rappresentare le trasformazioni sociali che scuoteranno il "piccolo mondo" a cui appartiene Huw e l'unità stessa della sua famiglia, con un padre minatore, Gwilym (Donald Crisp), emarginato dai propri compagni per non aver aderito a uno sciopero di massa. La crisi ineluttabile della working class e il senso di solidarietà e di unione sono i temi-chiave di Com'era verde la mia valle, ricompensato con cinque premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia.
Sentieri selvaggi
E nella produzione di John Ford rientra quello che è universalmente considerato l'incontrastata punta di diamante del western, Sentieri selvaggi: un'opera seminale sia rispetto al mito della frontiera, sia nell'ottica dell'evoluzione di un genere e dei suoi codici espressivi. Diretto nel 1956 a partire da un romanzo di Alan Le May, il film vede John Wayne nel ruolo del cowboy Ethan Edwards, ex-soldato dell'esercito confederato che fa ritorno presso la sua famiglia in Texas: una terra selvaggia da cui partirà la ricerca ossessiva di Ethan (il titolo originale è appunto The Searchers), determinato a rintracciare una tribù di comanche per vendicare le violenze subite dai propri parenti. Al di là del confronto/scontro fra bianchi e nativi americani, secondo una dicotomia schematica che assume però anche valenze metaforiche, Sentieri selvaggi è soprattutto un grande film sul tramonto di un'epoca, imperniato su uno struggente connubio fra romanticismo, violenza e malinconia.